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I cosiddetti termovalorizzatori

Ecco una serie di articoli di Roberto Topino e Rosanna Novara già pubblicati su http://www.missioniconsolataonlus.it/cerca.php?azione=det&id=2413

EUROPA – Roberto Topino e Rosanna Novara
Marzo – 2007 
L'imbroglio dei «termovalorizzatori»

Bruciare i rifiuti? Una pessima idea

In Italia l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili è irrisorio. Forse anche per questa ragione si è inventata una scappatoia all’italiana: considerare come energia da fonte rinnovabile quella prodotta dagli inceneritori (termovalorizzatori).  Un falso, tra l’altro finanziato da un prelievo (il «Cip6») dalla bolletta elettrica di tutti noi.  I termovalorizzatori funzionano? Producono energia elettrica, ma a costi insostenibili, soprattutto per la salute dei cittadini.  Da ultimo, disincentivano la raccolta differenziata (che già è poco amata dagli italiani). A conti fatti, questa soluzione non funziona, in quanto produce più problemi di quanti ne risolva.

In Italia non si chiamano quasi mai «inceneritori» (sebbene lo siano a tutti gli effetti), ma «termovalorizzatori». Quest’ultimo termine indica che questi impianti non servono solo a bruciare i rifiuti, ma a produrre energia (che viene poi rivenduta allo Stato) oppure calore utilizzabile nel teleriscaldamento. Apparentemente sembrerebbero impianti vantaggiosi, invece non è proprio così, perché se tutti i rifiuti prodotti in Italia fossero destinati al termovalorizzatore e fosse ottimizzata al massimo la combustione, si arriverebbe ad ottenere energia elettrica solo per il 12% del fabbisogno nazionale per uso domestico. Per quanto riguarda invece il teleriscaldamento poi, questo è efficace solo entro 2,5 Km dall’impianto ed è possibile solo in edifici di nuova realizzazione. Attualmente in Italia la produzione di energia elettrica tramite incenerimento dei rifiuti è sovvenzionata indirettamente dallo stato, per sopperire alla sua antieconomicità ed il tutto avviene tramite il sistema detto Cip6 (vedi box). Infatti, questa modalità di produzione di energia è considerata impropriamente come «da fonte rinnovabile» alla stregua di idroelettrico, solare, eolico e geotermico. Pertanto chi gestisce l’inceneritore può vendere

all’Enel l’energia che produce ad un costo circa triplo, rispetto a quello di chi produce energia a partire da metano, petrolio e carbone. L’Unione europea (Ue) ha avviato una procedura d’infrazione contro l’Italia per gli incentivi dati dal governo italiano per la produzione d’energia bruciando rifiuti inorganici, visti come «fonte rinnovabile». Nel 2003 il Commissario Ue per i trasporti e l’energia Loyola De Palacio, recentemente scomparsa, in risposta ad un’interrogazione dell’on. Monica Frassoni al Parlamento europeo, ribadì (20/11/2003, risposta E-2935/03 IT) il fermo «no» dell’Unione europea all’estensione del regime di sovvenzioni europee  per lo sviluppo di fonti energetiche rinnovabili, previsto dalla Direttiva 2001/77, all’incenerimento delle parti non biodegradabili dei rifiuti. Queste le affermazioni testuali del Commissario all’energia: «La Commissione conferma che, ai sensi della definizione dell’art. 2, lettera b) della Direttiva 2001/77/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 settembre 2001, sulla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità, la frazione non biodegradabile dei rifiuti non può essere considerata fonte di energia rinnovabile. Il fatto che una legge nazionale (Legge 39 del 1/3/2002, art. 43) proponga d’includere, nell’atto del recepimento italiano della Direttiva 2001/77 (D.L. del 29/12/2003, n. 387) i «rifiuti tra le fonte energetiche ammesse a beneficiare del regime riservato alle fonti rinnovabili, ivi compresi i rifiuti non biodegradabili», rappresenta una palese violazione di quanto dettato dalla Direttiva europea. Esiste peraltro una contraddizione in questa Direttiva comunitaria, che autorizza l’Italia a considerare l’energia prodotta dalla quota non biodegradabile dei rifiuti nel complesso dell’elettricità prodotta da fonti rinnovabili, ai fini del raggiungimento dell’obiettivo del 25% del totale nel 2010; tale deroga è però stata attaccata nel 2006 in sede di Parlamento europeo coll’emendamento (art. 15 bis) alla legge comunitaria 2006.
C’è poi da considerare un altro aspetto, oltre a quello giuridico ed economico, dell’uso dei termovalorizzatori.

L’ambiguità dei «limiti di legge»

Qual è il loro impatto sulla salute pubblica? I termovalorizzatori possono operare solo se adeguatamente dotati di sistemi per l’abbattimento delle emissioni, in grado di garantire il rispetto dei limiti di legge. Attenzione, però, perché i limiti di legge, come tutti i limiti relativi a prestazioni tecnologiche, sono tarati sulla capacità di abbattimento dei fumi ottenibile con le attuali tecnologie. Infatti non serve imporre dei limiti oltre la capacità oggettiva di contenere l’inquinamento permessa dai sistemi attuali. Questo, però, significa che i «limiti di legge» non garantiscono un valore di inquinanti «sicuro» in base a studi medici ed epidemiologici sull’effetto degli inquinanti emessi. C’è poi da dire che i limiti di concentrazione degli inquinanti imposti dalla normativa sono riferiti al m3 di fumo emesso, mentre non viene detto nulla sull’emissione totale d’inquinanti, cioè al valore commisurato alla quantità di rifiuti bruciati. Praticamente vengono impostati come limiti di legge dei valori, che si riferiscono al «miglior impianto» attualmente realizzabile e non all’effettiva rischiosità dei vari inquinanti. Per capire meglio questo concetto ci viene in aiuto Mario Tozzi, noto geologo e divulgatore scientifico, primo ricercatore Igag/Cnr, che nel suo ultimo libro sostiene che le domande giuste da porre sarebbero: quanti picogrammi (miliardesimi di milligrammo) di diossina (vedi box) emette davvero un impianto? I valori forniti sono medi o minimi? Quante misurazioni sono effettuate in un anno?  È opportuno sapere che per i termovalorizzatori è previsto un solo controllo all’anno: per essere sicuri che l’impianto non sia nocivo è evidente che il monitoraggio dovrebbe essere continuo e non annuale e soprattutto non autocertificato.

Diossina per tutti

Attualmente le normative europee indicano che in un m3 di fumi non devono esserci più di 100 picogrammi di diossina. La sola considerazione che per le diossine si usa come unità di misura non il milligrammo, comunemente usato per le altre sostanze, ma il picogrammo   (10-12 g) è più che sufficiente a farci intuire il grado di pericolosità per la salute di queste sostanze. Del resto, a tale proposito, vale la pena di ricordare che le diossine sono le stesse sostanze responsabili delle terribili conseguenze dell’incidente occorso all’Icmesa di Seveso, o delle conseguenze dell’uso del tremendo «agente orange» (diossina appunto) usato nella guerra del Vietnam (vedi inserto). Tozzi fa poi un rapido calcolo per dimostrare a quale rischio potremmo essere esposti, vicino ad impianti «a norma di legge». Se la tecnologia attualmente disponibile non ci consente di rilevare la presenza di diossina al di sotto di un certo valore, ad esempio 50 pg/m3, entro comunque il limite di legge che è di 100 pg/m3, si rischia di non considerare affatto valori inferiori, ad esempio 40 pg/m3, di diossina emessa da un impianto e di valutare pertanto quest’ultimo come idoneo e rispettoso dei limiti di legge. Poiché però nell’aria che respiriamo normalmente, la quantità di diossina è di 0,05-0,5 pg/m3, allora 40 pg/m3 vogliono dire un quantitativo da 80 ad 800 volte superiore rispetto alla normale quantità. Quindi, solo perché non misurabile, ignoriamo tale quantitativo e le sue possibili conseguenze? Un inceneritore di media taglia, cioè da un migliaio di tonnellate di rifiuti al giorno, emette circa 5 milioni di metri cubi di fumi. Se la quantità di diossina in essi contenuta fosse di 40 pg/m3, significherebbe che ogni giorno nell’atmosfera sarebbero dispersi 200 milioni di picogrammi di diossine. Poiché la dose massima tollerabile giornalmente da una persona adulta è di circa 150 pg, questa quantità sarebbe quindi quella tollerabile da un milione e mezzo di persone. Con un centinaio di inceneritori di questo tipo sul territorio nazionale si arriverebbe a 20 miliardi di picogrammi di diossina, cioè la massima dose tollerabile da 150 milioni di persone. E questo con impianti rigorosamente a norma di legge.
Non dimentichiamo che, per quanto riguarda la diossina, non è importante solo la sua quantità in un m3 d’aria, ma quanta effettivamente se ne deposita al suolo in un anno. Le diossine infatti sono un gruppo di composti ad elevato peso molecolare, quindi poco volatili. Sono inoltre solubili nei grassi, dove tendono ad accumularsi e non vengono smaltite dall’organismo umano, per il quale sono tossiche e cancerogene. Pertanto, anche un’esposizione a livelli minimi, ma prolungata nel tempo, può causare gravissimi danni alla salute sia umana, che animale.  È importante a tale proposito ricordare che presso i lavoratori dell’inceneritore di Cracovia è stata rilevata un’incidenza anormalmente alta di neoplasie polmonari e di accidenti cardiovascolari, nonché un’incidenza anomala di neoplasie, disturbi respiratori, patologie tiroidee e malformazioni fetali negli abitanti esposti. In Italia uno studio condotto negli anni 1986-2002 nel territorio di Campi (Fi) ha rilevato più del doppio di casi attesi per linfomi non Hodgkin e per sarcomi dei tessuti molli, tumori che la letteratura scientifica correla molto strettamente all’azione delle diossine. Studi giapponesi sottolineano che la maggiore fonte di diossina è rappresentata dagli inceneritori urbani ed inoltre è segnalata l’incidenza di morti infantili, malformazioni congenite e malformazioni della sfera riproduttiva fra gli abitanti vicini ad inceneritori anche di ultima generazione. Naturalmente gli inceneritori non sono gli unici impianti a rilasciare diossina, che è rilevabile normalmente presso altri impianti industriali, soprattutto acciaierie, oltre che nel fumo di sigaretta, nelle combustioni di legno e di carbone e nelle combustioni incontrollate (es. mini-incenerimento domestico).

Mercurio, cadmio, (…): di tutto, di più

I termovalorizzatori sono responsabili della diffusione di idrocarburi aromatici policiclici, di policlorobifenile (PCB), di metalli pesanti, quali piombo, zinco, rame, cromo, cadmio, arsenico, mercurio e di furani; inoltre, come qualsiasi processo di combustione, rilasciano nell’aria polveri sottili, la cui quantità emessa aumenta al crescere della temperatura (specialmente il particolato ultrafine PM<2,5). A proposito di mercurio, la maggioranza degli studiosi sostiene che è pressoché impossibile escogitare sistemi efficaci per abbatterne con sicurezza l’emissione; ricordiamo che il mercurio provoca gravissimi danni al sistema nervoso centrale. Per quanto riguarda le polveri fini PM2,5 e quelle ultrafini (da PM2,5 a PM0,1) di tipo inorganico, va innanzitutto detto che non esistono filtri efficaci, per cui un limite alla loro emissione non sarebbe attuabile al momento, se non vietando il funzionamento degli impianti di incenerimento. Le nanopolveri o particolato ultrafine, cioè quelle a PM<2,5, sono responsabili, secondo dati Oms del 2005, di un calo di vita medio di 8,6 mesi in Europa e di 9 mesi in Italia (morti cardiovascolari e respiratorie).
L’azione mutagena e cancerogena degli idrocarburi aromatici policiclici e del policlorobifenile è fin troppo nota, mentre per quanto riguarda il cadmio, questo ha mostrato un danno genotossico da stress ossidativi con accumulo nel sistema nervoso centrale, renale ed epatico e inoltre è causa di malformazioni fetali e cancerogenesi a carico di diversi tessuti.
Naturalmente nel corso degli ultimi vent’anni sono stati fatti molti passi avanti, nel tentativo di rimuovere i macroinquinanti derivanti dall’incenerimento e presenti nei fumi (ad es. ossido di carbonio, anidride carbonica, ossidi di azoto e gas acidi come l’anidride solforosa) e di abbattere le polveri. Si è così passati da sistemi di filtro come i cicloni ed i multicicloni,  con rendimenti massimi di captazione degli inquinanti rispettivamente del 70% e dell’85% ai filtri elettrostatici o filtri a manica, che hanno una resa fino al 99% ed oltre. Inoltre sono state sviluppate misure di contenimento preventivo delle emissioni, ottimizzando le caratteristiche costruttive dei forni e migliorando l’efficienza del processo di combustione. Questo risultato si è ottenuto attraverso temperature più alte, maggiori tempi di permanenza dei rifiuti in regime di alte turbolenze e grazie all’immissione di aria per garantire l’ossidazione completa dei prodotti di combustione. Però non va dimenticato che l’aumento della temperatura, se da un lato riduce la produzione di diossine, dall’altro aumenta quella degli ossidi di azoto, nonché delle nanopolveri, per cui diventa necessario trovare un compromesso.

Brescia: ma che bel premio!

Facciamo ora una considerazione a proposito del «miglior impianto», a cui si attiene la normativa vigente, in materia di limiti da non superare. Recentemente, cioè nell’ottobre 2006, l’impianto di termovalorizzazione di Brescia è stato proclamato «migliore impianto del mondo» dal Waste to Energy Research and Technology Council (Wtert), un organismo indipendente formato da tecnici e scienziati di tutto il mondo e promosso dalla Columbia University di New York. Lascia tuttavia perplessi il fatto che questo organismo annoveri tra gli enti finanziatori e sostenitori la Martin GmbH, che è tra i costruttori dell’inceneritore premiato. D’altro canto proprio questo impianto è stato oggetto di diverse procedure d’infrazione da parte dell’Unione europea. Se a ciò si aggiunge la testimonianza del dottor Francesco Pansera, che parla di censura del dissenso tecnico a Brescia, nonché di soppressione delle verifiche e delle voci critiche, il sospetto che i premi dati a certi impianti non siano altro che subdole forme pubblicitarie diventa forte. Sul sito della Martin GmbH, raggiungibile da quello della Wtert, si legge poi che in Italia la Martin è partner della Technip, un’altra multinazionale, che sta già partecipando ad un piano del presidente Cuffaro per la costruzione e la gestione di inceneritori in Sicilia. Quindi per queste ditte l’Italia, cioè la nazione premiata, rappresenta un mercato in espansione, purché si neutralizzino le critiche e si ottenga il favore dell’opinione pubblica. Del resto in Italia i termovalorizzatori sono ancora poco diffusi, a differenza dell’Europa, dove sono attualmente attivi 304 impianti in 18 nazioni.
Bisogna tuttavia porsi una domanda: perché paesi come l’Olanda, la Germania e la Francia stanno perseguendo la politica di bruciare sempre meno rifiuti, per dismettere un giorno gli impianti esistenti? A tale proposito in queste nazioni sono attuate amplissime forme di raccolta differenziata e di riduzione alla fonte anche con leggi nazionali sul riutilizzo delle bottiglie di vetro e di plastica (ogni cittadino in pratica paga una cauzione sulle  bottiglie di plastica e di vetro, che gli verrà restituita con un bonus per il supermercato, quando riconsegnerà le bottiglie negli speciali spazi presso i centri commerciali). Inoltre in tali nazioni si stanno sempre più usando forme di energia alternativa, quali quella eolica e quella solare. Alla luce di tutte queste considerazioni, possiamo dedurre che la strada del termovalorizzatore non è certo quella ottimale per risolvere il problema dell’eliminazione dei rifiuti e quello della produzione di energia, tanto più che non solo non sappiamo con certezza quali sono le sostanze realmente immesse nell’atmosfera, ma a quanto pare non possiamo nemmeno fidarci troppo delle valutazioni d’impatto ambientale, che vengono effettuate. Pensiamo inoltre al fatto che l’energia che si ottiene dalla combustione di un oggetto è quasi sempre di gran lunga inferiore a quella impiegata per costruirlo. Per di più, per ricostruire lo stesso oggetto, è necessario sfruttare materie prime dell’ambiente (ad es. alberi nel caso della carta), che si sarebbero risparmiate con il riciclaggio.  Sicuramente è quindi fondamentale assumere nuovi stili di vita, che portino ad una riduzione dei rifiuti all’origine, ad un loro riutilizzo o al loro riciclaggio, dove possibile, in modo da limitare al minimo il conferimento in discarica o negli inceneritori già esistenti.  
Roberto Topino e Rosanna Novara

Il glossario di «Nostra madre terra»

L'ABC DEL PROBLEMA

Cancerogeno: qualsiasi agente chimico, fisico o virale in grado d’indurre la comparsa di una forma di cancro.

Cicloni e multicicloni: si tratta di apparecchiature utilizzate per la separazione di particelle solide o liquide trascinate dai gas e per la separazione di particelle solide trascinate dai liquidi, sfruttando l’azione della forza centrifuga. I cicloni sono essenzialmente costituiti da recipienti cilindrici con una parte inferiore tronco-conica, nei quali viene introdotta tangenzialmente la corrente fluida da purificare, messa in movimento a grande velocità. Da un condotto centrale esce, verso l’alto, il fluido purificato, mentre nel fondo conico si raccolgono le particelle separate, la cui grandezza è di solito compresa fra 5 e 1.000 µm. Sono molto usati per eliminare le particelle dai fumi di scarico di industrie. Composti organici ed inorganici: i primi sono composti contenenti atomi di carbonio (C) e costituenti tipici della materia vivente, mentre gli altri non contengono atomi di C e sono prevalentemente, anche se non esclusivamente, presenti nel regno minerale.

Danno genotossico: danno al Dna, quindi analogo di mutazione (vedi: mutageno).

Filtri a manica: sono utilizzati per le separazioni solido-gas e sono costituiti essenzialmente da tubi di tela, all’interno dei quali arriva il gas da depurare; mentre quest’ultimo attraversa la superficie, il solido viene trattenuto. Costituiscono l’ultima fase del recupero dei solidi da gas e spesso sono montati a valle dei cicloni.

Filtri elettrostatici: sono anche detti elettrofiltri. Sono costituiti da un tubo a grande diametro e di estesa superficie, che rappresenta il condotto del fumo ed è collegato a terra e da un filo posto al centro del tubo, dal quale è isolato elettricamente. Il campo elettrostatico, che si genera tra questi due elementi, provoca una ionizzazione del gas; gli ioni negativi caricano le particelle solide e liquide, presenti nei fumi, che si raccolgono sulla superficie del condotto (elettropositivo), dal quale sono asportate. Sono usati per asportare polveri e nebbie, anche di dimensioni piccolissime.

Fonti di energia alternativa: idroelettrica, solare, eolica e geotermica. In questi casi l’energia elettrica viene ottenuta rispettivamente dalla trasformazione di energia idraulica, solare, cinetica derivante dalla forza del vento e dal calore della terra.

Furano: composto organico eterociclico dotato di caratteristiche aromatiche (cioè con formula di struttura ad anello, contenente legami semplici e doppi alternati). Dal tetraidrofurano vengono preparati l’esametilendiammina ed il nylon. Presenta reazioni di sostituzione elettrofila, che avvengono però in condizioni più blande, che negli altri composti aromatici.

Idrocarburi aromatici policiclici: sono idrocarburi derivati dal benzene, per condensazione di due o più anelli benzenici. Vengono estratti dal catrame di carbon fossile o dal petrolio. È nota la loro azione cancerogena. Tra i tumori più diffusi, da loro causati, ricordiamo il cancro del polmone. Nel fumo di sigaretta sono presenti questi idrocarburi, nonché ammine aromatiche.

Mutageno: qualsiasi composto in grado di provocare una mutazione del Dna cellulare. Le mutazioni vengono distinte in geniche, cromosomiche o genomiche a seconda che vengano colpiti uno o più geni, un cromosoma oppure più di un cromosoma, così da compromettere l’intero genoma. Se il genoma colpito appartiene ad una cellula della linea germinale (ovociti o spermatozoi), la mutazione verrà trasmessa alla discendenza, con conseguenze di maggiore o minore gravità, a seconda del danno genetico (es. malformazioni, aborti spontanei, ecc.) mentre una mutazione a carico del Dna di una cellula della linea somatica (cioè di tutte le cellule del corpo diverse da quelle germinali), può determinare la trasformazione della cellula in senso neoplastico.

Picogrammo: 10-12g = 10-9mg = 1/1.000.000.000 mg.

Policlorobifenili: sono composti organici aromatici clorurati, in cui degli atomi di cloro sostituiscono in varia percentuale gli atomi d’idrogeno di un bifenile. Sono stati ampiamente impiegati per vari usi, finché non ne è stata segnalata la tossicità, dovuta all’inquinamento delle falde acquifere.

Stress ossidativo: danno a varie strutture cellulari dovuto all’azione dei radicali liberi, molecole che hanno perso nei loro atomi un elettrone, nell’orbita esterna. Queste molecole vengono prodotte nelle fasi intermedie del metabolismo cellulare e sono sostanze chimiche paragonabili ad un ossidante, che intacca le materie più diverse, tra cui il Dna cellulare, con rottura delle sue catene e quindi con effetto mutageno e cancerogeno. Il nostro organismo si difende dall’azione dei radicali liberi con dei sistemi enzimatici, come la superossido-dismutasi, e non enzimatici tra cui gli antiossidanti naturali delle cellule, come il glutatione, la metionina, la cisteina e le vitamine C ed E. Diversi fattori favoriscono la formazione dei radicali liberi tra cui il tabacco, per la presenza di idrocarburi aromatici policiclici e di ammine aromatiche, l’alcool, l’assunzione di certi farmaci, l’esposizione a svariati composti chimici, le radiazioni ionizzanti ed i raggi ultravioletti.
(a cura di R.Topino e R.Novara)

Come funziona un termovalorizzatore

DAI RIFIUTI, ENERGIA E… (fumi, scorie, ceneri)

Il funzionamento di un termovalorizzatore può essere sintetizzato in 7 fasi:

1) Arrivo dei rifiuti, che possono essere utilizzati come sono, il cosiddetto «tal quale», oppure provenire da impianti di selezione, per la produzione della frazione combustibile o Cdr (combustibile derivante dai rifiuti), previa separazione degli inerti (metalli, minerali, ecc.). Confrontando la resa di un impianto, che brucia il «tal quale», con uno che brucia il Cdr, si stima che il rendimento del primo sia di 250 Kwh/tonnellata, mentre quello del secondo sia di 800 Kwh/tonnellata, quindi la combustione del Cdr dà sicuramente una resa migliore. Prima di venire bruciati, i rifiuti sono stoccati in un’area dell’impianto dotata di un sistema di aspirazione, per evitare la dispersione dei cattivi odori.

2) Combustione: mediante griglie mobili i rifiuti vengono portati in forno e bruciati a circa 1.000° C, in presenza di aria forzata, per migliorare la combustione con continuo apporto di ossigeno.

3) Produzione di vapore: il calore derivante dalla combustione dei rifiuti viene utilizzato per portare ad ebollizione l’acqua di una caldaia posta a valle del bruciatore.

4) Produzione di energia elettrica: il vapore generato mette in moto una turbina, che accoppiata ad un motoriduttore e ad un alternatore, trasforma l’energia termica in elettrica.

5) Estrazione delle scorie: le componenti incombuste dei rifiuti vengono raccolte e smaltite in discarica. Nel caso dell’uso del Cdr si ottiene un abbattimento della produzione di scorie.

6) Trattamento dei fumi: i fumi derivanti dalla combustione vengono filtrati con un sistema multistadio (filtri elettrostatici o filtri a manica), per la riduzione degli agenti inquinanti sia aeriformi che corpuscolati; la loro temperatura viene inoltre abbassata a 140°C mediante acqua di raffreddamento, che necessita poi di depurazione.

7) Smaltimento delle ceneri: le ceneri derivanti dalla combustione sono normalmente classificate come rifiuti speciali non pericolosi e conferite in discarica. Nel caso della combustione del «tal quale» rappresentano circa il 30% del peso iniziale, mentre nel caso della combustione del Cdr rappresentano circa il 70%. Le polveri fini, classificate come rifiuti speciali pericolosi, rappresentano circa il 4% del peso iniziale. Entrambi i tipi di polveri sono smaltite in discariche per rifiuti speciali.

Il caso Torino

«VOGLIAMO INCENTIVI»

A seguito dell’emendamento al decreto legge sugli «obblighi comunitari», deciso dal Consiglio dei ministri il 27 dicembre 2006 e formalizzato a gennaio 2007, che in pratica ha ristretto l’ambito d’applicazione del sistema «CIP6» (gli incentivi alle fonti energetiche rinnovabili e assimilate, pagati come sovrapprezzo nelle bollette energetiche dai cittadini italiani), sia nella giunta comunale torinese che in quella della provincia di Torino c’è stata aria di bufera, perché sostanzialmente è stato colpito dal provvedimento il progetto di costruzione del termovalorizzatore del Gerbido. A seguito di questo emendamento, l’incentivo sarà limitato ai termovalorizzatori già esistenti ed operativi, ma non a quelli «già autorizzati» e di cui è già stata o sarà avviata la realizzazione, come appunto nel caso di quello del Gerbido.
La reazione del presidente della provincia di Torino, Antonio Saitta, si è tradotta in un appello bipartisan per tentare di ottenere, da parte del governo, una deroga a beneficio degli impianti già autorizzati. Secondo Saitta, senza tale deroga i costi della costruzione e del funzionamento del termovalorizzatore ricadranno sulle spalle dei cittadini, sotto forma di un vertiginoso aumento della tassa rifiuti.
Ma quanto verrebbe a costare la sola costruzione del termovalorizzatore? Ebbene, il costo dell’impianto è stimato in 260 milioni di euro, a cui vanno aggiunti 90 milioni di euro per le spese connesse, più 20 milioni di compensazioni, per un totale di 370 milioni di euro. La gara d’appalto dovrebbe essere avviata nel gennaio 2008, mentre l’impianto dovrebbe entrare in funzione nel 2011.
E quanto costa smaltire i rifiuti con il termovalorizzatore, oppure in discarica? Per quanto riguarda i costi dello smaltimento con il termovalorizzatore, questi varieranno a seconda della disponibilità dei contributi. In particolare dovrebbero essere di 120-125 euro per tonnellata a incentivi zero, mentre potrebbero scendere a 90-95 euro con incentivi al 40% ed a 80 euro con la totalità dei contributi; il conferimento in discarica costa attualmente circa 123 euro a tonnellata.
L’atteggiamento di chi vorrebbe questi incentivi è in linea con le direttive europee? La risposta, come abbiamo cercato di spiegare nell’articolo, è «no».

Roberto Topino
Rosanna Novara