Non è vero che in Abruzzo non succede mai niente. Può succedere, per esempio, che per decenni una grande industria chimica inquini la zona in cui si trova la falda idrica che fornisce acqua potabile a 450 mila persone. Può succedere che attorno a quell’industria sorga la discarica abusiva di rifiuti pericolosi più grande d’Europa. Può succedere che le analisi nell'area industriale rilevino sostanze tossiche e cancerogene, con valori fino a 161 mila volte il limite legale. Può succedere che per anni tutto ciò sia, nella migliore delle ipotesi, ignorato o sottovalutato da chi dovrebbe allertarsi e intervenire. Può succedere di imbattersi «in qualcosa che al confronto – confida un investigatore – Porto Marghera sembra una cazzata». Può succedere. È successo.
Il paradiso perduto
Questa storia non è ambientata in uno di quegli inferni industriali che fanno paura solo a guardarli, ma in un’incantevole valle a cinquanta chilometri da Pescara, lungo l’autostrada per Roma. Un canyon imponente, incastrato tra due parchi nazionali (Gran Sasso e Majella), che dall’Appennino si apre verso il mare Adriatico. Boschi a perdita d’occhio, cime imbiancate sullo sfondo, qua e là mucchi di case lungo i pendii. Ai piedi della valle si convogliano tutte le acque dai monti, che alimentano due fiumi paralleli. Uno in superficie, il Pescara (con l’affluente Tirino), che scorre tra piccole lagune cristalline dove i ragazzi vengono a campeggiare e a fare il bagno. Uno sotterraneo, la grande falda d’acqua da cui pesca l’acquedotto.
Quest’impianto serve 450 mila persone, un terzo della popolazione regionale, che diventano fino a 600 mila d’estate. All'altezza del paesino di Bussi, sotto il ponte dell'autostrada e con il fiume che passa in mezzo, c'è un sito industriale. Un insediamento chimico sorto nel 1901 e che nel corso del ‘900 segue tutta la parabola della chimica italiana. Riconvertito alla bisogna a fini bellici (la posizione la rende inattaccabile), poi finisce nell’orbita Montedison. La storia cambia nel 1982, quando si aprono otto nuovi pozzi dell'acquedotto. Pur chiamandosi pozzi di Sant'Angelo, di angelico non hanno nulla. Anziché collocarli a monte dell'industria, dove l'acqua è ancora incontaminata, li piazzano a valle, dove il fiume ha già imbarcato un bel po' di veleni. Quindi, da quel momento, l'acquedotto porta nelle condutture e nelle case degli abruzzesi acqua con residui di scarichi chimici.
I primi allarmi
Il primo campanello d'allarme suona vent’anni dopo, nel 2002, quando la multinazionale belga Solvay acquisisce lo stabilimento e rileva, nel terreno sottostante, sostanze nocive oltre il limite consentito. Il sito dunque, è sin da quel momento ufficialmente inquinato (ad oggi, la bonifica non è ancora iniziata). Un momento. L'industria inquina la falda che poco più a valle alimenta l’acquedotto. Siamo sicuri che l'acqua che arriva nelle case sia davvero potabile? Prima che qualcuno si ponga questa domanda, passano due anni. Nel 2004, fatte le prime analisi dell'acqua, l'Asl certifica «uno stato di inquinamento» che «pregiudica gravemente la qualità delle acque destinate al consumo umano» e «necessita di urgenti provvedimenti (…) da parte delle competenti autorità…».
Le sostanze inquinanti rilevate sono tre: tetracloroetilene, tricloroetilene e cloroformio. Tutti e tre classificati dall'Organizzazione mondiale della sanità come tossici per fegato e reni. Il primo è anche un probabile cancerogeno. Tecnicamente si tratta di uno STATO DI ALLERTA e l’Asl lo scrive proprio così, tutto in maiuscolo, in modo che balzi subito all'occhio, in una nota del settembre 2004.
Tutti zitti, tutti fermi
Che cosa succede, di fronte a un allarme così inequivocabile? Nulla. Ovvero riunioni, rimpalli di responsabilità, conferenze di servizi. E dire che le cosiddette autorità competenti non mancano: Asl (Azienda sanitaria locale, dà i giudizi di potabilità), Arta (Autorità regionale territorio e ambiente, fa le analisi in laboratorio), Aca (società pubblica di gestione dell'acqua), Ato (Ambito territoriale ottimale, ente pubblico che coordina la gestione dell'acqua), commissario straordinario del governo, una quarantina di Comuni, Provincia, Regione e c'è sempre il rischio di dimenticarne qualcuno. Ma anziché intervenire ed effettuare analisi anche su altre sostanze, si danno la consegna del silenzio. Un documento della Regione chiede agli altri enti «un’adeguata discrezione al fine di evitare inutili allarmismi nei cittadini interessati dai fenomeni di inquinamento in atto». Infatti i cittadini continuano a bere ignari di tutto, sebbene la legge imponga di informare la popolazione della presenza nell’acqua di sostanze potenzialmente dannose per la salute.
Questione di filtri
La gabola per non fare nulla è semplice: miscelare l'acqua inquinata con quella buona, presa dai vecchi pozzi sistemati a monte dell'industria. Così i veleni si diluiscono e l'acqua torna potabile. Peccato che la miscelazione, oltre che vietata dalla legge come chiarito dal ministero dell’Ambiente, non sia risolutiva. Alla fine del 2004 una nuova relazione dell’Agenzia ambientale regionale aggrava il quadro: nella falda, diciannove molecole superano i limiti di legge. Tra queste anche il cromo esavalente, il micidiale agente tossico e cancerogeno reso famoso dal caso di Erin Brockovich, una storia vera accaduta negli Stati Uniti e diventata film da premio Oscar. In queste analisi, il tetracloroetilene risulta schizzato a livelli di concentrazione impressionanti: fino a 4.800 volte superiori a quelli tollerati. E poi mercurio, piombo, nichel, cloruro di vinile. L’Agenzia, che pure conferma il giudizio di potabilità dell’acqua, consiglia controlli giornalieri e barriere idrauliche per tamponare l’inquinamento. Tutto inutile.
Come in un film
Passa un altro anno e la magistratura minaccia il sequestro dei pozzi, che vengono chiusi a fine 2005 ma poi incredibilmente riaperti dopo aver messo dei filtri. È un’altra finta soluzione: i filtri possono ben poco. Anzi nel febbraio 2007 nuove analisi rilevano concentrazioni di tetracloruro di carbonio (un composto tossico che colpisce fegato, reni, cuore e sistema nervoso) superiori rispetto a prima. I filtri sono già saturati. Sono trascorsi cinque anni dal primo allarme, tre dalle prime analisi. A dispetto dei palliativi dietro cui si trincerano le autorità, la situazione è peggiorata. Fausto Croce, professore di chimica all'università di Chieti, vive proprio nella valle. Insospettito da un trafiletto su un giornale locale, preleva campioni di acqua e li fa analizzare in laboratorio da un’equipe di colleghi. Dopo qualche giorno, allarmato dai risultati, Croce contatta Augusto De Sanctis, volontario del Wwf. Augusto non ha il fascino di Julia Roberts, ma come nel film dedica anima e corpo alla causa dell'acqua e della salute. Trascina il vicepresidente del Wwf Abruzzo, Fabio De Massis, a bordo della sua vecchia utilitaria lercia e scassata. I due raggiungono la valle e accompagnano i tecnici di un laboratorio di Roma per fare altre analisi. L’esito è sconvolgente: possibili cancerogeni come il tetracloruro di carbonio a livelli mai raggiunti in nessuna acqua potabile del mondo. Ma quando questi dati vengono portati all'attenzione delle autorità, la risposta dell’Ato, l’ente pubblico che coordina il servizio idrico, è non meno sconvolgente: «Avranno fatto le analisi con le provette sporche».
Una bomba
Com'è possibile che argini più robusti alzati nello stabilimento industriale, filtri ai pozzi e miscelazioni dell'acqua non siano serviti a niente? Si capisce il 12 marzo 2007 quando il Corpo forestale, guidato dal comandante provinciale Guido Conti, va a dare un’occhiata nelle viscere della valle. Comincia a scavare attorno al sito industriale e al fiume. E scopre che per decine di metri, lì sotto, la terra è intrisa di sostanze inquinanti. Le stesse che hanno contaminato l'acqua. Come in una macabra caccia al tesoro, i forestali si spostano più in là per chilometri. Scavano. E l’esito è sempre lo stesso: ovunque veleni. Qualcuno sviene a metri di distanza, nonostante le mascherine. «È una bomba ecologica senza precedenti», scrivono. Per mesi proseguono i sondaggi.
Alla fine, in tre punti diversi della valle, sequestrano una decina di ettari di terreni (una superficie grande come venti campi di calcio) per un totale di 500 mila tonnellate di rifiuti. La discarica abusiva di rifiuti pericolosi più grande d’Europa. Per decenni, quella montagna di schifezze ha inquinato il terreno, i fiumi e la falda utilizzata dall’acquedotto. La conformazione del territorio, con la valle a fare da grande imbuto naturale, ha amplificato gli effetti della «bomba».
Troppo tardi
Lo scandalo esplode. Ora non si può più far finta di niente. Non si può ancora chiedere omertà su carta intestata. Eppure bisogna aspettare il 3 agosto 2007 perché i pozzi vengano nuovamente chiusi. Un terzo dell'Abruzzo resta senz'acqua in piena estate, la gente è inferocita e partecipa in massa a un consiglio comunale straordinario. L'Acquedotto ricambia i filtri e minimizza il pericolo. Ancora una volta i pozzi vengono riaperti, ma questa è l'ultima. A novembre arriva il provvedimento definitivo e la promessa che i pozzi non saranno mai più utilizzati. Nel frattempo partono le indagini epidemiologiche per individuare gli eventuali danni provocati dall’acqua inquinata sulla salute delle persone. Indagini quantomeno tardive e non ancora penetranti come necessario quando è in gioco la salute pubblica.
Perché ora è questo il punto: sapere quale prezzo hanno pagato i cittadini bevendo acqua contaminata. Sessanta tra associazioni e comitati spontanei organizzano una manifestazione con seimila persone. Un gruppo di giovani geologi e registi inizia a girare un documentario. Infine, solo poche settimane fa, l’Istituto superiore di sanità fa giustizia di anni di ipocrisie. Dichiara l'acqua «non idonea al consumo umano» e certifica «un rischio per la salute umana». Dai primi allarmi sono passati sei anni, dalle prime analisi quattro. Quanti e quali danni alla salute dei cittadini si potevano evitare?
Le indagini
È possibile scaricare mezzo milione di tonnellate di rifiuti a due passi da un centro abitato senza che nessuno se ne accorga? Chi è il responsabile della devastazione ambientale della valle? Chi ha scaricato i veleni? Chi ha inquinato l'acqua potabile? E chi, pur sapendo e dovendo intervenire, ha fatto finta di non vedere? Forse si capirà tra poche settimane, quando il pubblico ministero Aldo Aceto dovrebbe chiudere l’inchiesta penale. Per due anni, i forestali hanno sentito testimoni e fatto sopralluoghi, analisi di documenti e fotografie, sorvoli aerei. Come archivisti, sono risaliti indietro nel tempo, ripercorrendo la storia del sito industriale. Dalla sede della Montecatini sono tornati con cinque pullmini carichi di carte. Ora hanno consegnato al magistrato dodici faldoni alti venti centimetri l'uno con «una storia che fa venire da piangere», racconta chi l’ha letta. L’indagine copre un periodo di almeno vent’anni. Le persone coinvolte sono una quarantina.
I reati spaziano da quelli ambientali agli illeciti tipici della pubblica amministrazione. Ma è bene non farsi illusioni: nelle indagini ambientali nove casi su dieci finiscono in un nulla di fatto. Prove complesse, processi lunghi, prescrizioni brevi. Ciò che potrebbe salvare questa inchiesta dall'oblio è l'eventuale contestazione del ben più grave reato di avvelenamento di acqua, punito con quindici anni di reclusione e con l'ergastolo se ne è derivata la morte di qualcuno.
Il futuro
E dei rifiuti pericolosi ancora depositati nella valle? Ah, per quelli ci sono ancor meno speranze. Bonificare la megadiscarica costa circa 150 milioni di euro. Per ora ne sono arrivati solo un paio e non sono bastati nemmeno per coprire i rifiuti con un telone. Così l'acqua piovana e il fiume continuano a trasportare veleni. In attesa della bonifica, a Bussi si guarda avanti. Una parte dello stabilimento chimico è in dismissione, ma è già pronto un progetto per insediare un nuovo impianto per il trattamento dei rifiuti industriali. Non quelli già abbandonati nella valle, ma altri provenienti da impianti petrolchimici, raffinerie e industrie chimiche di mezzo mondo, dagli Stati Uniti alla Polonia. Più o meno centomila tonnellate ogni anno. No, davvero non si può dire che in Abruzzo non succede mai niente. http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/200805articoli/32705girata.asp