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Sbarcato da Caronte

Caron dimonio con occhi di bragia…

Difficile prendere davvero sonno nella pentola a pressione che è la Padania notturna di questo sgarbato esordio d’estate. Io non ce la faccio. Al massimo giaccio in una specie di liquido stato stuporoso. Caronte impazza, non come canuto traghettatore di anime dannate ma come rovente anticiclone. Cercare di ricordare a memoria il terzo canto dell’Inferno non aiuta.

È alba da poco e mi alzo lasciando un groviglio di lenzuola fradice.

M’infilo pantaloncini e scarpe ed esco in strada a correre. Correre… Si fa per dire: dopo una notte simile, una delle ormai tante notti simili e con il peggio annunciato che deve ancora arrivare, al più si trotterella. Vabbè, mi rassegno a trotterellare.

Rientro a casa. Doccia, colazione salutista ed esco con la lavastoviglie rotta caricata in automobile. Rotta non è un aggettivo del tutto giusto. Nell’ultimo sussulto di società vagamente razionale – ormai sembrano passate ere geologiche – quella lavastoviglie sarebbe stata riparata senza discussioni. Oggi,no. Due mesi fa si spezzò la maniglia di plastica che sgancia lo sportello. Un pezzo da un Euro a esagerare. Quel pezzo l’ho cercato terra marique, per terra e per mare, nel latino del mio vecchio professore, ma il ricambio non esiste. Allora ripiego: vedo di comprare tutto lo sportello. Alla filiale modenese del Costruttore si stanno ancora prendendo gioco di me. “No, signore – ridacchia il tale dietro il bancone, scambiando un’occhiata con il collega -: i ricambi non ci sono. E poi, dopo dieci anni…” Già, se si potesse riparare la lavastoviglie, come si farebbe a far girare l’economia? Insomma: per un pezzo da un Euro scarso ho dovuto comprare una lavastoviglie nuova. Marca diversa, per punirli. Ma che cosa conta? E quella vecchia? Quella vecchia la porto all’isola ecologica del Comune. Arrivo. L’addetto all’entrata mi squadra. Sembra scocciato. Mi chiede sospettoso che cosa porto. Confesso che è una lavastoviglie. Mi indica un container. “Mi dà una mano a scaricarla?” chiedo ingenuamente. Quello mi guarda come se fossi un matto e “No – mi dice: – il regolamento… E poi io sono invalido.” L’osservo un attimo riesumando un antico occhio clinico e mi pare solo un po’ sovrappeso. Ma forse l’apparenza inganna. “Nessuno può aiutarmi?” “Il mio collega – e indica un tale vestito ecologicamente di verde che fuma stravaccato su una sedia – ha due ernie.”

Arrivo al container. Il pavimento è a mezzo metro da terra. Per grazia del Cielo io non sono invalido e non ho l’ernia: sono solo vecchio e la lavastoviglie è ingombrante oltre che non particolarmente leggera. Ma una vita di sport magari mi ha conservato un po’ di efficienza. Da solo scarico l’elettrodomestico giustiziato dal sistema e, credo senza eleganza, lo alzo di quei cinquantanta centimetri che il Comune ha disposto a imitazione di Giochi Senza Frontiere. Chissà se il sindaco e l’assessore all’ambiente ce la farebbero da soli o se, eccezionalmente, gl’invalidi…

Non ho voglia di chiedermi che diavolo ci stiano a fare lì quei due individui, perché li abbiano scelti per quel mestiere se sono gravemente malati, perché esista- se esiste davvero – un regolamento che oppone un fiero divieto a che sia aiutato chi porta roba all’isola ecologica. Mi ritorna in mente quando al centralino di un ospedale della zona avevano assunto un sordomuto (giuro che è vero) e mi propongo di non meravigliarmi se a dirigere il traffico ci ritroveremo dei vigili ciechi. Anzi, dei vigili non vedenti come il linguaggio politicamente corretto a cavallo del Millennio comanda. Ti amo di un amore non vedente. La parte estrema dell’intestino crasso è l’intestino non vedente. Reso non vedente dalla collera ha preso a martellate suo zio…

Lo ammetto, sono nervoso.

Accendo la radio. C’è la pubblicità dell’acqua minerale con la versione rifatta de La Cucaracha. Spengo precipitosamente. Piuttosto che bere quell’acqua, muoio liofilizzato. L’ho detto: sono nervoso.

Vado a fare rifornimento alla solita stazione di servizio, quella a prezzo scontatissimo. C’è la fila, una fila molto più lunga del solito. Quando finalmente tocca a me chiedo all’addetto come mai tanta ressa. Oggi i suoi colleghi non sono venuti. Perché? Boh! “Intanto domani ce la giochiamo,” mi fa lui. Lo guardo interrogativo. “Gli facciamo fare la figura dei culoni dell’altra sera.” “?” “…dei tedeschi. Gli spagnoli… come i tedeschi. Vinciamo noi.” Adesso sono più sollevato: il benzinaio è tranquillo e noi… Noi? ma giochiamo tutti sessantuno milioni? Comunque sia, saremo campioni d’Europa di calcio e la patria sarà salva. Entro nel negozio pagare. C’è una sfilata di magliette appese ad una rastrelliera. “Mamma – dice l’ipotetica teen-ager – vado da benzinaio e mi compro una maglietta.” Che cosa si comprerà in farmacia? Di magliette ce n’è una rosa con le piume e i lustrini. Sul petto troneggia la scritta FASCION. Non resisto. “Che cavolo vuol dire?” aggredisco tra i denti la ragazzina seduta alla cassa. “Vuol dire MODA. È inglese.” Meno male che me l’ha spiegato. “Non si scrive così,” insisto io, antipatico senza sforzo. “Vuol dire MODA. È inglese,” ripete lei. La fulmino. “Vuol dire MODA. È inglese.” Ho perso. Dopotutto ieri ho pescato un’avvocatessa che scriveva “proffessoressa” con un’esagerazione di effe e suscito da anni l’interesse morboso di un’insegnante universitaria che appioppa uno schioccante accento su “quì” e un audace apostrofo in “qual’è”. Chi si ricorda della scena del principe De Curtis che detta una lettera a Peppino De Filippo? Il film era “Totò, Peppino e la Malafemmena”. Insomma, la ragazzina alla cassa ha i fondamentali per fare una carriera luminosa, accademica o forense a scelta, e io mi agito in un mondo che è ogni giorno più suo.

Esco con il serbatoio pieno. Devo andare dall’amico apicoltore che ha un po’ di modernissime api malformate da consegnarmi perché io dia “un’occhiata al microscopio”. Forse ha dormito male pure lui perché è particolarmente di cattivo umore. Senza nemmeno un saluto attacca subito: i neonicotinoidi che, nella loro follia, gli agricoltori schizzano dappertutto uccidono le sue api. “Non ne avevamo abbastanza delle tetracicline – mi fa lui. – Ci vogliono più di sette chili di DDT per ammazzare quanto un grammo di quella roba. Il miele viene da schifo e il consorzio non lo vuole.”

E questa è solo la mattina.

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Enrica
12 anni fa

La storia delle cose
Video molto carino dove anche un bambino capisce che la famosa “crescita” è semplicemente suicida e che chi la propaganda è solo un imbecille. Anche se è un premier

http://www.youtube.com/watch?v=oktdSO_J3Vc