“Dov’è Trieste?”
“Guarda lassù, in alto, a destra,”
“Dentro il confine per un pelo.”
“Sì, però è italianissima,”
Certo, Trieste è italiana anche se l’aspetto è marcatamente quello dell’ultima Austria-Ungheria, l’immagine di un impero dalla burocrazia perfetta, dai funzionari che si sarebbero suicidati piuttosto che favorire, anche a parità di condizione, un parente o un amico, quello delle spese rendicontate al centesimo. Senza voler indagare o discutere, le istanze dei popoli sottomessi minarono l’impero che si sbriciolò lasciando ognuno responsabile del proprio destino.
Oggi, a giochi fatti da quasi un secolo, se si prescinde da una certa ipocrisia e da una certa tendenza alle bocche cucite più diffuse al Nord che al Sud, l’Italia è abbondantemente fatta, con i picciotti e gli eredi dei Cacciatori delle Alpi molto difficilmente distinguibili.
Lo so, Trieste è lassù, discosta da tutto, e ben pochi sono a conoscenza dell’aria che vi si respira. Ma, dopotutto, a noi, che importa? E, invece, Trieste è una bella fotografia dell’Italia com’è condotta oggi e, se non si è troppo impegnati con il calciomercato, un po’ d’informazione non guasterà, magari per poter estrapolare su altre situazioni per tanti versi sovrapponibili e, ancora magari, per non venirmi a raccontare i casi propri come se fossero realtà inaudite. Io queste porcherie le ho viste mille volte.
Mi limiterò al massimo perché, dovessi addentrami anche solo un po’ nell’argomento, dovrei scrivere un libro.
Dal 1896, nel quartiere orientale di Servola esiste un impianto di notevoli dimensioni per la produzione della ghisa. È l’unico in Italia. Da allora ci sono stati diversi passaggi di mano e ora il tutto è nelle mani di tale cav. Arvedi, attempato (1937) magnate senza moglie e senza figli noti che possiede un altro impianto, nel caso un’acciaieria, a Cremona.
Chiunque abbia la ventura di capitare in zona non può non vedere immani nuvoloni colorati, spesso neri, che escono vivaci da vari punti dell’impianto, e chi sia così sprezzante del pericolo e faccia una passeggiata nei dintorni troverà palpabili strati di polvere nera depositata dovunque, dall’erba ai muri, dalle auto a, un po’ grottescamente, le zampe dei gatti. Le quantità sono vistose e quella presenza non può sfuggire..
Qualche settimana fa due parlamentari triestini memori del loro mandato, il senatore Battista e l’onorevole Prodani, incaricano mia moglie e me di analizzare 5 prelievi di quelle polveri e, senza alcuna sorpresa, ci troviamo le particelle classiche di quella lavorazione, da giganti di diverse decine di micron a sferule di qualche decina di nanometri. Niente di eccezionale, non fosse che i dati ufficiali, pure un po’ confusi, rilevano una situazione da Mulino Bianco. Vero è che 5 prelievi, se ci si vuole attaccare a pareti scivolose aggrappandosi ad una retorica fatta di squallore, sono poca roba, ma basta un giretto nel quartiere per vedere che anche quei prelievi erano ridondanti.
Comunque sia, la mattina del 27 scorso mia moglie ed io siamo alla libreria Knulp in una saletta piccolissima stipata all’inverosimile e mostriamo in modo oggettivo le immagini di ciò che abbiamo osservato. Io anticipo la cosa illustrando brevemente i risultati di un paio di progetti di ricerca europei e le conclusioni dello IARC (l’istituto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che si occupa solo di cancro). Insomma niente che non sia noto in campo scientifici da anni e niente che sfugga a ciò che qualunque tecnico capace può rilevare.
Difficile controbattere una parola e, infatti, un responsabile della Ferriera presente in sala se ne sta prudentemente acquattato. Anzi, quando uno tra il pubblico lo riconosce nega di essere chi è e si dà alla fuga precipitosa abbandonando anche un libro sulla sedia (recuperato e restituito).
Ma sotto c’è un problema troppo importante: quello dei quattrini, il collante potentissimo che unisce l’Italia. La Ferriera ha chiesto un’AIA (autorizzazione integrata ambientale) che, se concessa, varrà 10 anni e, grazie a quella, otterrà un finanziamento di un centinaio di milioni dalla BEI. Senza quel documento, niente quattrini. E, allora, bisogna gettare il cuore oltre l’ostacolo come i vecchi eroi tridentini della Grande Guerra e lasciare alle ortiche ogni cosa. Bisogna attaccare perché quel pezzo di carta è vitale.
In mancanza di argomenti la Ferriera fa pubblicare un articolo per molti versi grottesco dal quotidiano locale, un articolo che solleverebbe l’ilarità in qualunque ambito serio. Addirittura si minacciano querele, forse allo IARC o al Padreterno che quelle leggi naturali ha voluto senza interpellare prudentemente il cavalier Arvedi. Insomma siamo alla farsa. Ma siamo in Italia e in Italia non ci sono leggi, non c’è logica, non c’è il più comune buon senso. Non c’è nemmeno scienza. In Italia conta essere “omini de panza”. Così, mio malgrado, dopo aver lavorato di ricerca a testa bassa per 43 anni potrei essere costretto a misurarmi con personaggi che non sanno nulla dell’argomento ma che, proprio per questo, sono pericolosissimi, capaci come sono di trascinarti in un terreno di follie e assurdità che nessun giudice sarà in grado di distinguere da quello scientifico. Ricordo quando, una volta, un professore universitario aveva abolito la legge di gravità e mi ci volle tanta pazienza per convincere il giudice che quello, proprio, non si poteva fare.
E, allora, ci sarà una puntata prossima.
Intanto, bisogna evitare che un ente arrivi all’enormità di emetter un’AIA, cosa che farebbe crollare ogni residuo rispetto per queste istituzioni ormai a brandelli.