In attesa delle reazioni (che stanno già arrivando) al programma Report andato in onda ieri in cui si è detto qualcosa di sgradito sul vaccino anti-HPV, beccatevi un mio racconto che scrissi nel 1996.
Qualche tempo dopo la scrittrice Dacia Maraini m’invitò in TV, ad una trasmissione di RAI2 chiamata, se ricordo bene, “Io scrivo, tu scrivi” o qualcosa di simile, e in quella, tra l’altro, lessi qualche passaggio di questo racconto.
LA GUERRA DI VICTOR
“La pazienza della Nazione ha toccato il limite!…” gracchiava la radiolina. “…Limite …”, facevano eco, rimbombando, gli altoparlanti, mentre la folla in delirio si riversava in Piazza degli Eroi.
“L’Impero dovrà pentirsi della sua arroganza di secoli e s’inginocchierà davanti al popolo della Nazione!: Guerra!”
Il tumulto era incontenibile.
Non era nel carattere di Victor entusiasmarsi. Però, senza che lui stesso se l’aspettasse, un alone caldo gli andava crescendo nel petto, gli stringeva la gola e lo faceva respirare a singhiozzi. Si tolse gli occhiali cerchiati d’acciaio, li pulì con cura nel fazzoletto, se li ripose sul naso e se li aggiustò dietro gli orecchi. Tutt’intorno uomini e donne d’ogni età lo urtavano superandolo di gran corsa.
Quando arrivò in piazza, questa traboccava di gente: la sua gente.
Trovò posto contro un portone e da lì, attraverso le lenti da miope, vide il succedersi un po’ sfocato di politici e alti ufficiali sul palco allestito in un’ora e imbandierato. Ognuno aggiungeva il suo contributo di patriottismo, dando sfogo ai sentimenti da sempre soffocati. Victor era uno di loro.
A pomeriggio inoltrato la gente sfollò con le bandiere, i volti avvampati, le gole roche. Gli altoparlanti tuonavano senza posa musiche marziali.
L’appartamento, minuscolo, era composto da due stanzette irregolari, divise da un paio di gradini. Le due finestre davano su un angusto cortiletto, rischiarato dal cielo all’altezza dell’ultimo piano e via via sempre più buio fino al selciato umidiccio. L’odore era quello delle cucine e dei gatti. Eppure Victor non avrebbe mai pensato di andarsene di lì.
La notte venne tardi e passò in un lampo, senza che la mente cessasse un attimo d’indagarsi: la sua onestà non gli avrebbe mai concesso un’amnistia.
Così Victor si trovò vestito nella divisa, un po’ larga e un po’ corta, dei fanti della Nazione.
Non partì subito. Per prime andarono le truppe di quelli che già erano sotto le armi. Lui restò in una caserma, smisurata e fatiscente, a fare istruzione insieme con migliaia di volontari e ad ascoltare ogni giorno i bollettini di guerra: L’esercito aveva attraversato il confine ed era impegnato in scontri durissimi. Battaglia dopo battaglia, metro dopo metro, l’avanzata era inarrestabile. L’Impero cedeva e presto la capitale sarebbe stata raggiunta e conquistata.
Leggendo e ascoltando, Victor sentiva ancora l’alone caldo salirgli in gola, e di notte, steso sulla branda, nel cicalare sommesso ed incessante della camerata, dominava a stento l’ansia di non fare in tempo ad andare. Perché non lo mandavano ancora?
Una mattina ci fu l’adunata nel cortile, intorno al pennone sul quale sventolava la bandiera. Il Comandante aprì la sua finestra e da lì lesse un dispaccio. Distorta dagli altoparlanti e rimbalzata dai muri altissimi, la voce annunciò che si andava. Per un attimo Victor si sentì la testa leggera e il cuore stretto in una morsa. Poi s’impose di recuperare il controllo e, contenendo l’esaltazione, con gesti misurati e deliberatamente solenni preparò lo zaino. La camerata era muta. Si udivano lo scalpiccìo degli scarponi e lo schiocco secco delle fibbie.
Ci vollero due giorni per raggiungere il confine.
Victor non era mai uscito dalla Nazione e si diede mentalmente dello sciocco quando si sorprese a considerare che le colline gialle oltre i fili spinati sfondati non erano diverse da quella su cui ancora si trovava. In quel pensiero, letto mille volte nei racconti sdolcinati dei sillabari, c’era cascato anche lui. Tutto ciò che è trito è più probabilmente vero.
Scrutando fin dove lo sguardo riusciva ad arrivare, nulla avrebbe potuto far indovinare che lì era la guerra, che di lì erano passate migliaia, centinaia di migliaia, di eroi vittoriosi. Colline, colline, e poi altre colline, tutte coperte da erba alta e gialla che s’increspava docile al vento caldo della prima estate. La Natura era indifferente alla Storia.
Si accamparono per la notte.
Sotto la tenda, al buio, qualcuno tentò di scherzare ad alta voce. Nessuno rispose.
All’alba il Comandante lesse un bollettino che diceva di conquiste e la colonna si mise in marcia. Li obbligarono a cantare.
Arrivarono ad un paese di macerie: non un essere umano. Verso una meta invisibile galoppava una decina di cavalle con i puledri, sottolineando l’orizzonte ondulato. Un branco di oche starnazzanti sfilava sgangheratamente tenendo il centro della strada. Un soldato cercò di catturarne una, ma quella balzò avanti, lasciando il ragazzo steso a terra a guardare i compagni che ridevano. Anche lui rise.
Aprirono le porte a calci. Le case erano completamente spoglie.
Per tre giorni avanzarono senza trovare esseri umani. Il terzo giorno, in un paese abbandonato, indistinguibile dagli altri, Victor udì un grido. Un soldato, entrato in una casa, aveva trovato un morto, steso per terra, con il sangue raggrumato che gli era uscito dalla bocca e gli occhi spalancati. Victor non aveva mai visto un morto.
Avanzarono ancora, lentamente, macchinosamente, per giorni tra l’erba gialla. Era quella la guerra?
Poi, durante l’attraversamento di un fiume, il ponte su cui transitavano le salmerie crollò con un boato e subito si levò una colonna di fumo.
I feriti vennero portati sotto le tende allestite frettolosamente e i morti furono allineati per terra. A Victor non venne ordinato nulla e lui si aggregò al gruppo che scavava le fosse, lontano da quei corpi immobili e dai lamenti dei feriti.
Avanzarono ancora per qualche giorno, finché non ricevettero l’ordine di fermarsi e di attendere l’arrivo della Sanità. Si allestì l’ospedale da campo e ogni giorno arrivavano i feriti dal fronte che, a quanto pareva, non progrediva più. Gl’infermieri sussurravano che a mezza giornata da lì gl’Imperiali si erano arroccati in una linea di fortini e resistevano.
Victor teneva un diario per sua madre ed uno per Sara, e spediva tutto regolarmente attraverso la posta che arrivava ogni settimana. Sempre c’era una lettera da casa. Quasi sempre ce n’era una da Sara.
Con una pioggia fredda e fina morì l’estate. Nella nebbia passò quasi tutto l’autunno. La vita all’ospedale era frenetica: ogni poche ore arrivavano i carri affollati di corpi bendati alla bell’e meglio, con le fasce rosse e sbrindellate. A volte qualcuno moriva durante il trasporto e Victor aiutava a scavare le fosse. Ora calava anche i morti, rigidi come manichini, e li copriva di terra.
C’era già un velo di neve quando smontarono le tende, superarono i fortini vuoti ed entrarono in città. Victor fu mandato con centinaia d’altri volontari a dormire in una scuola. C’erano le carte geografiche appese al muro e i disegni dei bambini e le lavagne, come nella scuola dove Victor insegnava. I gabinetti avevano le tazze piccole e basse.
Ogni tanto arrivava la posta e per Victor c’erano sempre tre o quattro lettere da casa e spesso una da Sara. Arrivavano anche i pacchi con le maglie e le torte rinsecchite.
Era appena passato Natale quando alla squadra di Victor toccò di perlustrare un quartiere periferico che doveva essere della piccola borghesia. C’era stata un’esplosione al palazzo del comune dove alloggiavano gli ufficiali e si cercavano i responsabili.
Il tenente divise i soldati in gruppi di tre e assegnò a ciascun gruppo un certo numero di case.
Oscar e Tino s’incamminarono con Victor, avvolti nei pastrani e nel fumigare del fiato. Si fermarono davanti al cancello di un giardinetto stecchito. Tino infilò la mano tra le sbarre e sollevò il paletto. In due passi furono davanti alla porta. Ancora Tino sferrò un calcio con il tacco dello scarpone e la porta si spalancò, rimbalzando violentemente indietro. I tre avanzarono nell’atrio. Nessuno. Oscar sparò un colpo e sbriciolò una vetrinetta vuota. Victor restò davanti alla porta e gli altri due salirono una scala di legno scricchiolante. Il grido soffocato di una donna e poi l’urlo di Tino. Il tonfo di un mobile. Victor salì le scale con il fucile imbracciato. Oscar, bocconi, teneva sotto di sé una donna che piagnucolava. Tino puntava il fucile, premendolo contro la testa di un’altra, più vecchia, inginocchiata sul pavimento. Il cuore di Victor si gelò per un attimo e la nausea gli bagnò la fronte di sudore. La donna di Oscar era un ricettacolo repellente. La donna di Tino era solo terrore. Victor scese le scale con tutto quanto restava della casa che gli roteava intorno. Passarono cinque minuti e i tre uscirono sulla strada grigia di neve fradicia calpestata. Victor stava due passi indietro. Dalla finestra si sentiva il pianto delle donne. O forse erano gli orecchi di Victor. Nessuno parlò.
I bollettini si erano fatti più rari. Intorno alla città era tutto un acquitrino e si aspettava la fine dell’inverno per riprendere l’avanzata verso la capitale, lontana, la cui posizione era segnata sulla carta geografica della scuola dall’alone sporco lasciato dalle ditate.
I convogli con vestiti, cibo e munizioni arrivavano in modo discontinuo. Non c’era bisogno di nulla, dicevano gli ufficiali; ma qualche volta Victor aveva fame e le scarpe lasciavano filtrare la neve sciolta. La scuola puzzava di uomini sporchi e di lana bagnata. Le aule trasformate in camerate rimbombavano di tosse.
A marzo si ripartì, seguendo alla distanza di mezza giornata le truppe da combattimento.
Erano ancora e sempre colline, fiumi e qualche raro villaggio, sempre abbandonato.
Quando in autunno entrarono nella capitale trovarono una città abitata da pochi vecchi macilenti che, immobili, li guardavano con doloroso stupore. La bandiera della Nazione sventolava sul tetto del parlamento e su molti edifici pubblici.
Dunque l’Impero, che da sempre aveva tenuto in soggezione i vicini, era un elefante decrepito e rammollito che cedeva quasi senza reagire.
I discorsi dei generali; i saccheggi delle case; i bottini di cianfrusaglie. Dall’altra parte nulla, tranne gli sguardi disperati.
Ora Victor era di stanza in un enorme ospedale con corsie lunghe, stipate di letti, non occupati da feriti ma da ammalati. Il cibo non arrivava quasi più e di medicine ormai nemmeno si parlava. Quando in un letto, la mattina, si trovava un morto, non si sentiva più colpa nel lasciare che il pensiero cancellasse quella bocca in più.
Victor si chiedeva dove fossero i soldati imperiali, i giovani, le donne: i nemici. Forse li avrebbero incontrati più avanti: il territorio da conquistare arrivava all’Oceano, e qui, nella Capitale, erano ancora lontani chissà quanti chilometri.
L’ultima lettera di sua madre Victor l’aveva ricevuta un mese prima, con una data anteriore di un altro mese. Come sempre alla Censura l’avevano aperta e alcune righe erano state cancellate con un inchiostro nerissimo attraverso cui era impossibile decifrare che cosa ci fosse sotto. Doveva essere successo qualcosa. Anche l’indecisione e l’imbarazzo malamente mascherati nei discorsi che la radio trasmetteva parevano confermare la sensazione.
Di Sara ora sapeva poco: da qualche settimana la lettera censurata diceva che non si vedeva più. Del resto nessuna risposta era arrivata alle ultime quattro o cinque missive. Il fatto che Victor avesse già letto in tanti copioni teatrali e in tanti romanzi la stessa cosa ne aveva fatto un avvenimento inconsciamente atteso come ineluttabile; eppure non gli era meno penoso. Victor si sorprese persino a piangere, finché non ritornò in sé al richiamo del sergente che lo mandava a scaricare un carro di cavoli.
I vecchi stavano in fila dal mattino, anche da prima dell’alba, per la scodella di zuppa che verso mezzogiorno l’Ospedale distribuiva finché ce n’era nei pentoloni. Oggi avrebbero avuto un po’ di cavolo anche loro. Victor riempiva con il mestolo le ciotole sbeccate e ricambiava con un cenno del capo la breve cantilena che ognuno dei nemici gl’indirizzava per ringraziarlo.
Ogni tanto riconosceva qualcuno dei suoi “clienti” nei fagotti di stracci che seppelliva nel fossato sempre pronto oltre i rovi che cingevano gran parte dell’Ospedale. Il giorno seguente, quando non li vedeva sfilare, sentiva il naso che gli pizzicava.
Passò tutto un anno senza che ci si muovesse. I ritratti della classe dirigente della Nazione, appesi dietro le scrivanie degli ufficiali, erano stati sostituiti da altri che erano arrivati con un carico di bandiere, guanti di filo e camicie troppo larghe e senza bottoni.
Una sera un tenente entrò in camerata e lesse ad alta voce i nomi dei soldati ai quali era concessa una licenza di due mesi a casa. Victor c’era. Ci fu un gran vociare che continuò tutta la notte.
La mattina il centinaio di soldati in partenza fu radunato nel cortile interno dell’Ospedale. Un maggiore affidò la responsabilità del gruppo ad un tenente e ordinò di raggiungere un paese distante tre giorni di cammino. Lì ci sarebbero stati i mezzi che li avrebbero ricondotti a casa.
Partirono e camminarono tre giorni. Gli acquitrini ritardavano il passo e spesso si compivano lunghe deviazioni intorno alle distese di erba fangosa. Il quarto giorno non c’era più nemmeno una galletta negli zaini e, immersi nell’acqua fino al polpaccio, gli uomini avevano la bocca bruciata dalla sete.
Superato un boschetto, videro una casa con il fienile. La raggiunsero. Dentro c’erano due vecchi: Filemone e Bauci, pensò Victor entrando per primo. Da dietro partirono due colpi di fucile e i due cascarono l’uno sull’altra, come burattini, senza che nessuno ne avesse sentite le voci. Trovarono qualche uovo, delle mele, un po’ di lardo e del pesce secco. Nel pozzo c’era l’acqua. Victor non mangiò. Bevve. Poi, automaticamente, prese una vanga e cominciò a scavare una fossa. Un sergente lo colpì con un calcio e lo spinse via.
Impiegarono un’altra settimana a raggiungere il paese dove li avrebbero dovuti prelevare. Come sempre non c’era nessuno. Aspettarono, nutrendosi delle mele che gravavano sugli alberi. Qualcuno tornava il pomeriggio con una lepre o con qualche uccello di palude che venivano arrostiti nei camini delle case abbandonate. L’acqua era putrida e dunque veniva fatta bollire prima di essere bevuta. Tuttavia qualcuno cominciò ad ammalarsi di dissenteria. Victor riprese a scavare le fosse.
Il tenente decise di muoversi di lì: erano passate tre o forse quattro settimane e nessun convoglio si era fatto vivo. Non era più possibile restare. Così la cinquantina di superstiti ripartì verso le montagne azzurrine che s’indovinavano all’orizzonte.
Le munizioni rimaste erano poche e vennero affidate ai tiratori migliori perché cacciassero la selvaggina. Mele, ormai, non se ne trovavano quasi più.
Quando salirono sulle montagne, erano poco più di una ventina. Gli altri, morti o ammalati, erano rimasti indietro; i morti in pace nelle fosse di Victor; agli ammalati era meglio non pensare.
Improvvisamente qualcuno chiese ad alta voce perché le montagne. Nessuno rispose. Nessuno sapeva dove stessero andando, perché salissero su quelle alture; nemmeno il tenente che aveva gli occhi rossi e le labbra mangiate dalla febbre. Le fragole, i mirtilli e i lamponi erano il cibo; però la pancia pareva sempre vuota.
Doveva essere autunno, ma Victor non avrebbe saputo dire quanto tempo era passato. Ad uno ad uno li aveva adagiati tutti in fosse sempre meno profonde. Anche Tino. Anche Oscar.
Aveva la barba e i capelli lunghi, le unghie spezzate. Il fucile lo aveva abbandonato.
Di tanto in tanto s’imbatteva in qualche casa, sempre vuota, e qualche volta ci trovava delle noci o del grano che non sapeva usare. Una cassetta di lattine di carne, una volta, nascosto in un solaio. Qualche volta riusciva a catturare un’anatra, restando per ore immobile tra le erbe di palude e lanciando un sasso nel branco che gli si era avvicinato. La carne la mangiava cruda.
Un pomeriggio, attraverso gli occhiali sempre più deboli, vide una bava di fumo uscire da un camino. Restò fino al crepuscolo seduto al limitare di un boschetto a guardare la casa, senza risolversi ad entrare. La notte era gelida. Forse lì non era passata la guerra. Forse non sapevano che lui era un nemico. La mattina vide una donna che usciva con un bidone da latte su un carrettino. Si alzò automaticamente e camminò verso la casa. Il grido di un uomo. Un colpo di fucile. Victor scappò senza sapere da dove gli venissero le forze. S’infilò tra i rovi e si vide le mani insanguinate. Intorno, sfiorando il nascondiglio, passavano gli uomini con i fucili. Rimase immobile fino a notte.
Poi camminò nel bosco finché non riuscì più a non cedere alla febbre. Aveva sete. Non avrebbe saputo dire quanto tempo era passato. Ogni poco si sdraiava e dormiva, svegliandosi dopo ore, o giorni, o anni. Aveva sete e beveva alle pozzanghere. Poi la dissenteria gli bagnava le cosce.
Gli alberi si erano diradati e l’orizzonte era pallido. La sabbia digradava. Victor camminava a passi disuguali, con le ginocchia flesse, verso le onde. Si fermò. Tra le ultime dune c’era una fossa scavata dal vento. La sabbia coprì il corpo di Victor.
SalutiGentile professor Montanari, grazie per la sua nuova risposta al post precendete. Le premetto che il sottofondo sgarbato e le sue velate offese non mi fanno nè caldo, nè freddo; per conto mio, continuerò a rivolgermi a lei, sia pure nell’ambito di un dibattito acceso, con rispetto ed educazione (e un po’ di ironia), ovviamente senza la minima pretesa dello stesso trattamento da parte sua. Mi rincresce insistere, ma lei contunua a spostare il fulcro della discussione su ciò che vuole lei. Spero lei voglia la gentilezza di valutare queste mie puntualizzazioni. Andiamo con ordine. 1. Torno a ripeterle: delle… Leggi il resto »
Nessuna polemica
È corretto ciò che è stato detto a Report sul vaccino anti-HPV?
RISPOSTA
Sì
@ ErnestoLegga “Vaccinarsi contro il papilloma virus” del dott. Eugenio Serravalle, e troverà ulteriori spunti riflessione di non poco conto. Per esempio le lesioni precancerose da papilloma virus sono tranquillamente asportabili tramite il PAP test che le donne normalmente fanno ogni 2 o 3 anni e comunque nel 90% dei casi guariscono da sole.Lo chieda a un ginecologo e vedrà che glielo confermerà. Inoltre il PAP test va fatto comunque perché c’è una significativa quota di genotipi del virus che non è coperta dal vaccino e anche perché non si sa quanto dura l’effetto del vaccino, sempre che il vaccino… Leggi il resto »
?
Interessante. Peccato che per tutti gli esperti (quelli veri) e i professori universitari di medicina, per esempio, dicano l’esatto opposto. Ma sicuramente sono tutti stupidi.
RISPOSTA
No: tengono famiglia.
@ Ernesto
Ma allora perché non chiede a quelli che lei ritiene i veri esperti e ai professori universitari se ciò che ha detto Report è vero?
Perché si rivolge a Montanari quando ci sono Burioni, Lorenzin, Di Grazia, Ricciardi, Luciano Onder, Mentana, Gramellini, Fazio, Mattarella, Boldrini, Grasso, Puglisi, nonché tutte le principali testate giornalistiche che in queste ore non fanno altro che proclamare che Report ha detto cose false? Non le basta?
RISPOSTA
E Martufello, Alvaro Vitali, Jimmy il Fenomeno, Topo Gigio, Francis il Mulo Parlante, lo scemo che ogni villaggio che si rispetti ha… Quelli dove li mette?
@ ParideVolevo solamente chiarirmi le idee e, dalla risposta che ho ricevuto, ho capito tutto. Una persona che conferma le sciocchezze dette in quella trasmissione fa capire che non sa neanche cosa è un virus, figuriamoci altro. Poi alcuni di voi continuano a criticare Burioni, e ciò è parecchio esilarante. Siete anche voi professori ordinari? Credete che sia facile diventarlo? Avete guardato il curriculum di Burioni? Le risposte sono abbastanza semplici. RISPOSTE Ametto la mia infinita ignoranza, ma un virus so che cos’è, almeno stando a quanto riportato sui libri. Il curriculum di Prezzemolino lo conosco. Diventare professore ordinario, specie… Leggi il resto »
@ Paride
Volevo solamente chiarirmi le idee e, dalla risposta che ho ricevuto, ho capito tutto. Una persona che conferma le sciocchezze dette in quella trasmissione fa capire che non sa neanche cosa è un virus, figuriamoci altro. Inoltre alcuni di voi continuano a criticare Burioni, e ciò è parecchio esilarante. Siete anche voi professori ordinari? Credete che sia facile diventarlo? Avete guardato il curriculum di Burioni? Le risposte sono abbastanza semplici.[/quote]
Ovviamente
Sicuramente diventare professore ordinario è facilissimo e le università sono pessime. Sbaglierò io
RISPOSTA
Fatte salve le punte d’eccellenza che si trovano anche da noi, la qualità media dei nostri ordinari è vergognosa e le nostre università non sono altro che l’espressione di quella qualità, aggravata da nepotismo, interessi di quattrini, interessi di carriera e burocrazia. Dia un’occhiata alle classifiche mondiali. Faccia un giretto nei laboratori di ricerca. Controlli che cosa effettivamente le università nostrane producono e se ne renderà conto. Continuare con le chiacchiere e con la retorica di glorie inventate è uno dei gravami che ci fanno affondare.
Vorrei dire
Per primissima cosa : complimenti Dottore.Altro stupendo racconto.
Per secondo ,ai vari personaggi che fanno SOLO polemica che hanno stufato per non dire altro.
In una conversazione con alcuni di voi mi sarei gia girata e me ne sarei andata.Siete dei perditempo logorroici.
Dottore dove la trova tutta questa pazienza?
Buone cose
RISPOSTA
Quei personaggi sono utilissimi. Sono la testimonianza offerta volontariamente del livello di un’umanità che si sta portando, come diceva sempre Danilo Mainardi, all’estinzione dopo aver recitato una parte breve quanto micidiale su questo pianeta. Se qualcuno mai si salverà avrà a disposizione documenti inoppugnabili del perché è successo.
.Barbara se si sta riferendo a me le rispondo dicendo che lei è una credulona, ma potrei dire anche altro. Per voi dietro ogni cosa c’è un complotto. Gli scienziati inglesi, francesi, americani, italiani ecc sono tutti corrotti/incompetenti? Quanto a lei, Montanari, devo dire che la dottoressa Gatti ha fatto allarmismo ingiustificato sul vaccino anti-HPV. A differenza di quello che afferma sua moglie (ma anche lei) sulla base delle conoscenze attuali, la quantità di nanoparticelle contenute nei vaccini è talmente piccola da non creare nessun danno. Per esempio l’agenzia francese sulla sicurezza dei medicinali afferma ciò che è stato scritto… Leggi il resto »
Caro Ernesto & co.
Forse tutto dipende da quale lato si guarda la medaglia. 😉
Lei mi da della credulona ma non sa quali sono le mie opinioni.
Io le sue le so e potrei dire benissimo la stessa cosa di lei oppure pensarla come lei…..chissà.
Stà di fatto che parlavo di logorroica senza entrare nello specifico argomento.
Comunque il primato non spetta a lei se la può consolare.
Saluti
RISPOSTA
A certi personaggi avere un primato fa invariabilmente piacere.
Divertente
Dottore devo dire solo una cosa. La parte piu esilarante è quella in cui le vengono impartite lezioni anzi correzioni riguardanti la nanotossicologia …..giuro….ridevo.
RISPOSTA
Toscanini si arrabbiò molto quando Ravel gli disse che il famoso Bolero per il quale Ravel è conosciuto anche a livello popolare non andava eseguito come lo eseguiva l’orchestra diretta dal Maestro. “Che cosa vuole saperne lei di come va eseguito!” pare gli abbia gridato.
Ma almeno lui era Toscanini.
EsilaranteA me invece diverte Barbara: ma perché continua a “compiere lecchinaggio”? Mistero. Quanto al dottore dico solo che non si deve irritare perché le ho semplicemente chiesto uno studio che mostra la pericolosità Delle nanoparticelle presenti nei vaccini. Niente di più. RISPOSTA Io non credo che lei sia stupido come si sforza di apparire. Vede, caro Ernesto, non ha alcuna importanza se una pallottola è sparata da una Colt o da una Beretta. Il problema è la pallottola che le fa un buco da qualche parte. Capisco che lei è nato “imparato”, ma abbia pazienza: legga almeno qualche libro scientifico… Leggi il resto »
Parliamo del raccontoE’ bellissimo. Fa venire i brividi. Dottore, ho visto che anche a lei come a me interessano le cose di guerra. A volte vedo i documentari sulla prima guerra mondiale e penso che al fatto quella follia è ancora presente nelle teste degli uomini che hanno le leve del potere e che usano il loro popolo come un branco di bestie da macello. E anche la stessa miopia di allora è presente negli occhi del popolo, che anche oggi non vede la realtà che ha davanti. E la volontà di credere e illudersi è anche quella sempre la… Leggi il resto »