La scuola è noia. Che fare per non morirne? Si prende un compagno di scuola, meglio se con qualche problema, magari un ragazzo che si porti addosso tutta quella collezione di ridicole particolarità così ben descritte da John Langdon Down, e lo si tortura per un po’ finché anche questo non annoia. Ingredienti necessari sono, al di là dell’imprescindibile protagonista delle attenzioni, l’essere in gruppo e disporre di un moderno telefonino per riprendere adeguatamente l’impresa. Tutto diligentemente su Internet, poi, naturalmente. Alternativa potrebbe essere quella d’intrattenere coram populo un giocondo rapporto sessuale con una compagna che si presti o, nella non auspicabile carenza, catturarne una e giocarle uno scherzo spiritoso. Anche uno strip tease, in mancanza d’altro, può andare. Ciack, si gira anche questa volta. Ma i nostri giovanotti sono persone di solida cultura: giusto ieri, in una scuola per geometri di Rovigo, un gruppo di giovani intellettuali ha dibattuto di profonde questioni teologiche, fatto che ha comportato la discesa del crocifisso arrogantemente penzolante dal muro ed il suo farlo a pezzi a suon di bastonate. Il tutto affidato alla memoria di You Tube perché il mondo ne tragga insegnamento. Qualche settimana fa, un’insegnante ha fatto scrivere cento volte
ad un suo allievo “sono un deficiente” per punirlo di un innocentissimo atto di bullismo. A questo punto, la famiglia del giovane insorge indignata e si rivolge alla giustizia che, adesso, pretende spiegazioni dalla professoressa che così vergognosamente abusa dei mezzi di correzione quando, addirittura, non c’è nulla da correggere. Bullismo? E con ciò? È di ieri pure la notizia che un padre amoroso ha preso a calci e pugni un bieco insegnante di musica che, in combutta con il collega (o dovrei piuttosto dire il complice?) d’inglese, non voleva saperne di promuovere il figlioletto. Cambiando scenario, qualche tempo fa, giusto per soddisfare una curiosità, ho perso una mattina per presenziare agli orali di un concorso universitario per diventare professore associato di odontoiatria, e quella sessione consisteva nella discussione dei lavori scientifici di cui il candidato era autore. Nell’occasione, i concorrenti erano quatto, pur se in origine erano di più, e il motivo della riduzione del numero era stato semplicemente il “consiglio” di qualcuno che conta: meglio ritirarsi per non intralciare. Ora, io non sono un esperto di odontoiatria ma, lo dico, magari, con qualche presunzione, non sono poi nemmeno lontanissimo dagli addetti ai lavori e, dunque, un’idea dall’interrogazione riuscivo a farmela. A quanto appariva evidente, tre dei candidati avevano un curriculum scientifico di prim’ordine e rispondevano con cognizione di causa alle domande. Il quarto, invece, mostrava qualche difficoltà. Non so se qualcuno ricordi le vecchie scenette di Paolo Villaggio nella parte di Fracchia seduto goffamente sopra una specie di sacco con il compianto Gianni Agus che impersonava “il padrone”. Beh, se qualcuno lo ricorda, quello era pari pari il quarto candidato. In aggiunta, i lavori che il ragazzo (era giovanissimo) presentava si contavano sulle dita di una mano ed erano di una pochezza disarmante. Uno di questi, poi, era stato evidentemente scritto dal babbo. Dal babbo? Sì, perché Fracchia era il rampollo di un babbo cattedratico della stessa università. La scena si protrasse penosissima per qualche decina di minuti e io, devo confessare, mi sentivo a disagio, addirittura mi sentivo male, per il povero ragazzotto che sarà pure stato un somaro ma che era, in fondo, una creatura del Signore. Come andò a finire? Che Fracchia vinse il concorso ed ora ha il suo stuolo di allievi che suggono il latte del suo sapere. Un caso unico? Ma scherziamo? Oggi all’università i titoli che contano sono i vincoli di sangue seguiti da quelli d’affari. Il resto non conta nulla. L’articolo 3 della Costituzione (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge…”)? Ma chi se ne frega! Un figlio è un pezzo di cuore: come fa ad essere uguale a qualcun altro? Torniamo al primo scenario. Il vicepreside dell’istituto di Rovigo analizza la situazione e ne scova il colpevole: il telefonino. Ecco il colpo di genio: è solo perché ci sono i telefonini che certe scuole sono trasformate in postume succursali della Gestapo o del KGB. Non ci fossero quegli strumenti infernali, quei nostri ragazzi da bulli ad accesso mediatico che sono ritornerebbero tutti agnellini. E il magistrato che inquisisce la professoressa? La società vuole avere ragione di questa terribile punizione, ma, chissà perché, nessuno s’interroga sul come mai la vittima di tanta ingiustizia abbia scritto cento volte “deficente”, così, senza la i. E all’università? All’università ormai si è creato un maelstrom che tutto inghiotte, e quel maelstrom è innescato da chi si è seduto alle cattedre degli antichi baroni di cui ci siamo finalmente liberati. Questi sono, e i fatti parlano da sé, padri premurosi che, eroicamente indifferenti alla tanto frequente pochezza dei figli (spesso fatti a loro immagine e somiglianza), trasformano con un tocco i somarelli dei loro lombi in professori, come i papi di una volta trasformavano la loro prole ancora in fasce in cardinali o i re di un tempo i loro augusti bambini in generali. La conseguenza, va da sé, è quella che stiamo sperimentando e che si farà sempre più vistosa: il generare allievi all’altezza degl’insegnanti e questi allievi, la classe dirigente della nazione, lì a perpetuare la specie. Chi vuole avere un assaggio, si legga le esternazioni “scientifiche” di certi cattedratici a proposito della combustione dei rifiuti, vada all’università (le lezioni sono pubbliche) a sentire che cosa insegnano i figli-professori o s’informi sui magistrati che trasformano le bocciature in promozione o bacchettano gl’ insegnanti così ingenui da credere nella loro missione. Ma chi vuole un assaggio più significativo ancora chieda agli studenti universitari, ragazzi sui vent’anni o giù di lì, se sarebbero disposti ad accettare di far carriera per meriti di parentela. Vedrà che nella maggior parte dei casi questi risponderanno di sì. È così che si vince la guerra: corrompendo le anime.