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Cerebropatici a 500 Euro al colpo

Se qualcuno non lo sapeva, è bene che sappia. Abusando della professione medica, una professione che palesemente non mi compete, io visito i bambini cerebropatici, prescrivo loro ignobili pastrocchi e mi faccio sganciare 500 Euro a visita.

Tra chi non era informato di questa mia attività truffaldina c’ero pure io ma, dato che l’informazione, quella vera, abita su Internet, da ieri anch’io so.

Ben poco saggiamente, un po’ per pigrizia, molto per una certa delicatezza gastro-intestinale, io non ho un account su Facebook né su altri bar sport del genere e, dunque, mi privo di una fetta fondamentale di mondo. Per fortuna, di tanto in tanto qualcuno mi tiene al corrente e l’ultima, freschissima, è questa: “ATTENZIONE alle comunicazioni del “Prof” Montanari ( prof non si sa di che cosa) non riporta dati sostenuti da studi validati dalla ricerca, ma “sue” osservazioni dalle quali deduce “pretestuosamente” le sue conclusioni.Completa buona fede? Non so, so però che genitori di pazienti cerebropatici per altri motivi, sono andati da lui alla modica cifra di 500,00 euro con prescrizioni di “miracolosi” farmaci omeopatici chiaramente inutili! Anche due miei pazienti sono incappati con lui, purtroppo l’ho saputo solo dopo.” (Copiato e incollato tale e quale).

Con una correttezza che raramente si riscontra nel meraviglioso mondo dei giornalisti italioti, il gestore del sito Facebook in cui compare questo utilissimo caveat composto nell’Italiano caratteristico dei nostri professionisti à la page mi ha scritto chiedendomi lumi: è vero che faccio quelle birichinate?

Forse un po’ bruscamente gli ho risposto intimandomi di dirmi chi si fosse esibito in quella maniera, pronto com’ero a recapitargli la querela dovuta. Querela inutile nel 2013 , è ovvio, ma qualcosa bisogna pur fare. Nel volgere di una giornata l’autrice di quelle idiozie si è rivelata (solo nome e cognome e null’altro) e si è scusata ammettendo candidamente di aver sbagliato persona. Il bersaglio delle sue osservazioni era un mio quasi omonimo, persona della cui esistenza sono informato proprio a causa di un altro qui pro quo passato ma della cui attività non so nulla e nulla voglio sapere perché nulla mi cale. Prima d’ora era mia convinzione che, intendendo insultare qualcuno, prima di sparare si avesse almeno l’accortezza di dare un’occhiata al bersaglio. Evidentemente il galateo del tardo 2013 non cita la norma e l’uomo al passo con i tempi ha una morale che a un vecchio come me sfugge.

La garrula superficialità che Internet concede è qualcosa d’indubbiamente preoccupante. Una volta che i parti demenziali di qualcuno (saranno, vedi mai, i cerebropatici di cui all’esordio?) sono stati sparati, non c’è modo di fermarli. Un amico che accede a Facebook mi ha appena mostrato le ormai antiche scempiaggini di Valeria Rossi, di Andrea dall’Olio, di Sonia Toni, di Marina Bortolani, di Matteo Incerti, di Francesco D’Amati e di tutta la corte dei miracoli che per lungo tempo imperversò su Internet inventando con la fantasia del più classico degli aguzzini infamie sul mio conto, infamie cui solo un cerebropatico avrebbe potuto regalare credito. Tutte scempiaggini smentite dai fatti e perfino dagli stessi testimoni chiamati in ballo da chi lanciò quel fango. Tutto perfettamente e facilmente controllabile da chiunque rifiuti con dignità di sguazzare suinamente nel pettegolezzo. Eppure quell’immondizia repellente è ancora là e quasi non passa giorno senza che qualcuno la esumi e la riprenda come fosse verità rivelata.

Ricorrere alla magistratura è perfettamente inutile. Quelle forme di diffamazione non interessano perché ormai sono il vivere quotidiano. Poi perché non c’è glamour per chi deve giudicare e quelle porcherie altro non sono se non un aggravio noiosamente inutile di un lavoro fatto di cartacce e di sbadigli. Una rivista molto diffusa arrivò mesi fa al grottescamente ridicolo di scrivere che mia moglie si era portata a casa in modo dubbio 202.000 Euro erogati dallo Stato per una ricerca di altrettanto dubbia utilità. Non c’era una sola parola di vero? I “giornalisti” avevano attinto (se mai avevano attinto) da una fonte balzana e ben si erano guardati dal controllare? Vabbè, ne parleremo tra un po’ di anni quando la macchina della “giustizia” avrà, come si suol dire, fatto il suo corso. Sempre che ci arrivi prima che la morte non ci tragga a salvamento da questa valle di lacrime. Intanto, però, quella menzogna resta scolpita per il pubblico ludibrio e per fornire materia a chi vive di lerciume. In fondo la vecchia, polverosa deontologia del giornalista è oggi solo un gravame fastidioso che rende meno appetibile il prodotto.

Con la complicità di una massa crescente di persone la società della “rete” sta diventando, moltiplicata mille e mille volte, quella tipica delle dittature dove la “giustizia” si fonda sulla delazione e dove il delatore, il cui anonimato è garantito, può inventare impunemente qualunque accusa. Odio, rivalsa, invidia, gelosia, interesse o semplicemente il gusto cosi umano di fare del male trovano in questo modo una sorta di legittimazione sociale. Da un certo punto di vista ognuna di quelle espressioni equivale patologicamente a uno spruzzo di nanoparticelle, invisibili e mortali come sono, e come accade per le particelle, chi genera quei veleni si aspetti di poterne prima o poi esserne vittima senza possibilità di difesa.

 

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