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The times they are a-changing. O no?

Due Nobel in staffetta? No, non credo proprio. Per quanto ci si sforzi di trovare acrobatiche similitudini tra Dario Fo che se ne va e Robert Zimmerman (Bob Dylan) che resta, io di affinità proprio non ne vedo. A mio parere due artisti profondamente diversi e volerli a tutti i costi mettere a braccetto fa torto all’uno e all’altro.

Dario Fo io ho avuto il privilegio di conoscerlo personalmente, una volta persino di stare su un palco insieme, di trovarlo ad un’anteprima sua e di vederlo venire a chiedermi quasi timidamente le mie impressioni, di cenare con lui e di avere da lui il più bel complimento che mi sia mai capitato di ricevere. Non che di complimenti io ne riceva o ne abbia mai ricevuti più di tanti, ma, mi fossero capitati, non ne avrei barattato un milione per quello di Dario.

Come per la quercia caduta di pascoliana memoria, è solo quando l’ultimo respiro se n’è andato per la manzoniana più spirabil aere (chissà) che ci si accorge dell’eventuale grandezza di chi non si aggira più in posizione eretta fra noi ma di lui c’è una più o meno ingombrante scia. Nell’occasione ho trovato particolarmente buffo e per nulla misterioso il coccodrillo della RAI che sta saturando il palinsesto di elogi sperticati a chi tenne al bando con infamia per un sacco d’anni. Ma così vanno le cose.

Ora, stando ai cantori postumi, Dario Fo le ha azzeccate tutte, compresa la sua itinerante posizione politica. Qui non mi è possibile essere d’accordo. La sua vicinanza a Grillo e ai grillini, stranamente geriatrica per un giovane a vita, è un sintomo inequivocabile d’ingenuità. Dario è stato tutto fuorché un furbetto. Non così si può dire per Grillo e per i commensali che mangiano alla sua mensa, una mensa magari non generosissima, però tutt’altra cosa se la si paragona alla vita precedente. E mi fermo qui.

Venendo a Bob Dylan, confesso che, da appassionato di musica “seria” come sono da sempre, mi è sempre piaciuto, e non poco. Questo almeno fino a Hurricane. Dopo, non saprei dire.

Ho sentito alla radio diverse critiche al suo Nobel, e qualcuna immancabilmente partorita da suoi “concorrenti” destinati a restare per sempre a bocca asciutta. Mi permetto di dire che, prescindendo da un eventuale inquinamento da invidia, questi ometti non hanno capito niente. Dylan è grande perché non strombazza ma dice, e dice con le parole dei semplici, e sa infilare nell’anima delle sensazioni che tutti provano e pochissimi sanno esprimere. E non le sanno esprimere perché non ci sono parole per farlo ma solo una cattura che va ben al di là di complicazioni paludate. Quando, poi, la critica s’inasprisce sibilando che la musica non c’entra con la letteratura, non si può altro che allargare le braccia. La musica di Mr. Zimmerman è di levatura modesta, a volte è perfino scopiazzata (Blowing in the Wind, per esempio), ma quella non è altro che l’eccipiente e non il principio attivo. Confondere i componenti è segno sicuro d’incompetenza, per non dire altro.

Ma come Dario Fo, anche Dylan ha le sue ingenuità. Nel ’64 considerava i tempi in cambiamento: una specie di fine del mondo in arrivo imminente. Invece basta andare a molto prima di quella data e poi saltare ad oggi per vedere che non è cambiato proprio nulla. L’uomo è sempre, invariabilmente quello, da Verre pro-pretore ladrone della Sicilia ai suoi emuli correnti. E non è solo il banale denaro ad essere coinvolto.

Un addio e un augurio di lunga vita.