Scrivo mentre viaggio in treno verso casa. Anzi, inizio a scrivere mentre siamo inspiegabilmente ma italianamente fermi quando il treno, un Eurostar, sarebbe dovuto essere partito ormai da un po’. È finita la campagna elettorale: è come l’ultimo giorno di scuola. Quasi un mese di sballottamenti su e giù per lo Stivale nei carri bestiame delle FS, tra incontri con la gente, interviste con i giornali minori e partecipazioni in TV. Queste ultime rarissime: quelle che Veltrusconi, Bertinotti, la Santanché, Casini e tutte le varie sottospecie di questa collezione museale erano costretti a lasciare per mancanza di ubiquità. Briciole. La RAI mi ha detto che le tante ore dedicate a quelli erano “cronaca” e nulla avevano a che vedere con la misteriosa par condicio. Io non faccio cronaca. Mediaset è risultata, tutt’altro che sorprendentemente, non pervenuta e mai si è sognata d’invitarmi nelle sue tre reti.
In realtà, quasi tutto lo ho e lo abbiamo
fatto in una sorta di porta a porta, viaggiando per chissà quanti chilometri per parlare con chi non esiste nemmeno quando la carne da voto diventa d’improvviso pregiata e appetitosa e, dunque, si trasforma in degna di qualche attenzione. Certo che, se quelli sono pochi, il gioco non vale la candela per chi del bene comune si fa un baffo e per antico mestiere vende il solito, vecchio pacco modello Forcelle per perpetuare ancora una volta la sua poltrona.
Li ho visti questi truffatori della compagnia di giro: sono eccezionali. Io non ce la farò mai ad essere un politico come loro, se il termine politico può trovare un’applicazione al di là dell’italica anestesia che ci siamo docilmente lasciati somministrare.
Non hanno alcuna sorta di pudore a gemellarsi con personaggi che si sono beccati condanne pesanti per reati odiosi né a definirsi, strillando, “la novità” quando, magari, sono figli d’arte o, comunque, sono lì da tempo immemorabile a sbrindellare l’Italia. Né si vergognano ad ergersi a difensori d’ideali di cui loro stessi sono i primi a non avere memoria, a strepitare con tribunizia veemenza contro leggi che loro stessi hanno proposto, a fare voltafaccia spericolati suggeriti dall’occasione, a rifiutare i confronti (quello in TV di venerdì sera è stato accuratamente evitato a scanso di guai), a non rispondere alle domande più ovvie, a non sfiorare nemmeno argomenti che potrebbero scottare i loro cosiddetti oppositori con cui, di fatto, sono pappa e ciccia perché mangiano tutti nello stesso, pantagruelico piatto che deve restare sempre traboccante e senza minaccia, a mentire pubblicamente non appena mentire diventa funzionale al loro istinto di conservazione.
Io vengo da fuori, io non c’entro con quei mostriciattoli, io non voglio che qualcuno mi assimili, non importa come, a loro. Io ne provo orrore. Io voglio fare politica nel senso vero del termine: voglio condurre la casa comune perché quei cosi dall’anima minerale ci stanno togliendo la terra di sotto i piedi e ormai di terra non ce n’è più, perché stanno divorando cinicamente il mondo dei nostri figli, perché stanno spogliandoci di tutto, fino alla dignità. Io non voglio: io devo fare politica perché sarebbe troppo vile non farla. Politica: la conduzione della casa comune.
L’altro giorno un vecchio personaggio minore di questo carro di Tespi, uno che ha sempre vissuto nella luce riflessa di chi di luce riflessa a sua volta splendeva, mi ha chiesto, rigorosamente fuori da orecchi indiscreti, dove pretendiamo di arrivare se non compriamo i voti. “A pacchi si comprano!” e rideva come chi l’anima l’ha venduta senza più ricordarsi quando. Sicuro: i voti si comprano perché di chi è disponibile a vendere se stesso, la sua terra, i suoi figli, per due soldi, a volte anche solo per una promessa che nessuno manterrà mai, se ne trova sempre. E tanti se ne trovano. Abbastanza da fare i numeri che servono e mandare chi serve dove serve. Non per il bene comune, naturalmente, ma di questo… Carne da voto che lo stesso compratore disprezza.
Ma non ho incontrato solo roba del genere: ho incontrato i giornalisti che strisciano scodinzolando intorno ai piedi di chi dà loro l’osso da rosicchiare. Chi striscia non inciampa. Giornalisti? Sì: al rovescio. Guai a chi informa! La conoscenza, la consapevolezza sono un seme gravido di democrazia, sono un’arma formidabile di legittima difesa, e, se qualcuno sa, magari non lo si frega più. È così che mi arrivavano, con il sorrisetto condiscendente di chi ha a che fare con un vecchio deficiente che tra un po’ finirà a nanna, le domande tipo “E allora dove se li mette lei i rifiuti?”, ignorando cocciutamente che cosa si fa altrove e mandando un’occhiatina al padrone per mendicare una carezza sulla nuca e, chissà, vedersi gettato un pezzetto di carne di quella buona.
Chiedo scusa se sono crudo e se appaio finanche esagerato, ma un mese così non perdona. E allora, da oggi so, e so per aver toccato con mano, che cambiare è ancora più urgente di quanto non abbia mai creduto. Bisogna cambiare subito, oggi, per non lasciare ai nostri figli una terra morta che non risusciterà. Bisogna dare un colpo di reni, riconquistare la nostra dignità, rinunciare, forse anche con un sacrificio momentaneo, alle squallide elemosine di chi ci promette un miserabile privilegio e vuole in cambio, ricevendolo con tanti ossequi, il nostro presente che ci appartiene e il futuro che non è nostro ma di chi ci seguirà. Non abbiamo altra scelta se non aprire gli occhi.
È tardi. Vorrei scrivere meglio ma sono stanco. Vorrei riuscire a trasmettere la paura che non posso non avere: quella che tutto resti com’è, con la solita cosiddetta alternanza venduta per democrazia che altro non è se non uno scambio apparente di ruoli da cui non scaturirà altro che la solita, vecchia, occhiuta rapina di chi si fregherà le mani per averci gabbato ancora una volta. Vorrei saper trasmettere la speranza, la preghiera, che stavolta si pensi davvero prima la prima volta dopo chissà quanti anni, per il bene comune.