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Il pattume sotto il tappeto

È una vecchia abitudine cui nessuno, ormai essendo tutti geneticamente assuefatti, fa caso. Chi amministra lo stato o anche solo una fettina minuscola dello stato non pensa neppure lontanamente di fare gl’interessi di chi lo paga e di chi ha ricevuto il suo giuramento di fedeltà, limitandosi a fare operazioni cosmetiche.

Prendiamo l’esempio di non pochissimi

comuni nostrani le cui giunte hanno contratto debiti (qualcuno ricorda quei convenientissimi investimenti di qualche anno fa?) che cascheranno sulle spalle delle giunte venture, quando i sindaci effettivamente indebitatisi avranno già abbondantemente esaurito la loro possibilità di riottenere il mandato e, se avranno fatto i bravi non scontentando chi conta, saranno finiti, salme remunerate, al cimitero degli elefanti della Provincia (speriamo non l’aboliscano!) o in Regione o – il Cielo lo voglia! – a Roma in Parlamento.

 

E il nostro Presidente del Consiglio non fa esattamente la stessa cosa, riempiendo le case dello stato con il sangue di chi l’anno prossimo, quando lui siederà in tutta la sua gloria a riposare in Senato, non avrà più un centesimo per pagare le tasse e la maggioranza che verrà, qualunque essa sia, dovrà cavare frutti dal deserto?

Ora stanno venendo al pettine un po’ di nodi, e lo fanno tutti insieme, finendo all’attenzione di chi deve saldare i conti, cioè noi vacche da mungere con le mammelle ormai secche.

Ilva, Alcoa, Carbosulcis: un trio di voragini.

Tutte e tre queste imprese hanno avuto per fondamento l’illusione che il tappeto potesse continuare a nascondere per omnia saecula saeculorum il pattume, ma qualunque mente razionale si sarebbe facilmente potuta accorgere della follia della cosa.

L’Ilva è figlia del defunto baraccone di stato Italsider, a sua volta figlio dell’Ilva, impresa privata nonna dell’Ilva attuale. Per decenni mai si fece attenzione a qualcosa di evidentissimo: il veleno che l’acciaieria spargeva alla cieca dovunque, colpendo senza fare distinzione non solo chi lavorava in fabbrica ma chiunque capitasse a tiro delle ricadute micidiali, dall’aria al cibo contaminato. Un personaggio comico locale travestito da autorità sentenziò ex cathedra che i tarantini fumavano troppo e per questo si ammalavano oltre misura. Ci fu, e furono le canaglie che avevano interesse a farlo, chi ci credette. E ci cedettero pure non pochi sempliciotti, quelli che “bisogna fidarsi delle istituzioni.”

Io andai a Taranto a inizio primavera 2008 e vidi lo scempio. Lo denunciai dicendo quello che sta saltando fuori adesso. Manco a dirlo, nessuno mi prestò ascolto. Dopotutto, chi dà ascolto a un terrorista?

È vero che l’Ilva di oggi qualcosa ha fatto, magari anche più di qualcosa, per limitare i danni ereditati da mamma e nonna, ma siamo ancora lontanissimi da un obiettivo accettabile. Accettabile per il bilancio imbarazzante che si fa sempre tra schiattare portandosi appresso figli e vicini di casa e pagnotta. Ci vogliono quattrini, tanti, per tamponare le falle aperte gioiosamente negli anni, e quelli da qualche parte dovranno arrivare. Facile indovinare da chi.

Alcoa è un’azienda privata di proprietà americana e non sta in piedi. Non ci sta per varie ragioni, a partire dallo snaturamento della Sardegna che all’industria non è vocata, fino all’assoluta antieconomicità di un’impresa fortemente energivora laddove l’energia ha costi stravaganti. Per tenere in piedi questa favoletta impossibile noi contribuenti abbiamo sacrificato caterve di denaro (più o meno un paio di miliardi di Euro) che, per assurdo, avrebbero mantenuto nel lusso quei lavoratori senza incomodarli a recarsi in fabbrica. Ora che non c’è più trippa per gatti, l’Alcoa saluta e se ne va spegnendo la luce (le celle), ben sapendo che nessuno sarà così fesso da prenderne il posto se non avrà la garanzia che un altro fiume di denaro pubblico succhiato dagli esausti contribuenti arriverà per tenere in piedi un cadavere.

Non tanto diversa è la situazione della Carbosulcis. Il carbone è poco ed è di qualità oggettivamente scadente (carbone sub-bituminoso a lunga fiamma), un carbone che di carbonio contiene poco più della metà della sua massa e che, invece, è ricco di zolfo, un inquinante decisamente sgradito all’ambiente e pure al mercato. Naturalmente si può intervenire dal punto di vista tecnologico, ma tirare fuori un prodotto vendibile significa far arrivare montagne di denaro che non torneranno mai indietro. Tutto questo trascurando completamente il problema ambientale, problema che non esiste né per i politici né per gl’industriali.

Ciò che ha accomunato le tre aziende è stata l’illusione che si possa andare avanti in eterno a farla franca, che i quattrini piovano dal cielo, che le porcherie scaricate nell’aria, nell’acqua e nel terreno svaniscano nel nulla come insegnano i luminari di qualche nostra università. Ciò che accomuna le tre situazioni è la sorte di chi là dentro ha ricavato di che mangiare ai quali la dabbenaggine, l’incompetenza e, non di rado, la disonestà nuda e cruda di chi si è succeduto al timone delle decisioni spesso per poi sparire ha rapinato la possibilità di un futuro decente e dignitoso che nessuno si è preoccupato di costruire o di lasciare esistere.

Malauguratamente l’equilibrismo d’imprese del genere regge a lungo perché la rovina economica, esattamente come l’istaurarsi delle malattie, impiega anni a manifestarsi, e, reggendo per anni, per anni i balordi che hanno messo in piedi e quelli che in piedi mantengono le operazioni proclamano di aver ragione perché “i fatti lo dimostrano.” Alla lunga, però, e nemmeno poi troppo alla lunga, i fatti, quelli veri, quelli che i “terroristi” prevedono con una facilità irrisoria per la loro ovvietà, fanno capolino e a nulla valgono i goffi tentativi di foglia di fico.