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I piatti della bilancia

Mi prendo un po’ di respiro e non parlo delle ultime esibizioni dell’Ordine dei Medici o delle follie galliche dei vaccini somministrati per strada o al supermarket come fosse regalare un campione pubblicitario di Nutella. Ormai la Medicina è indistinguibile da una barzelletta di pessimo gusto. Così ritorno nella mia vera dimensione, quella che non infastidisce il salottino, con

 

I PIATTI DELLA BILANCIA


Il tocco alla porta fu leggero, eppure bastò per far trasalire Riccardo.

“Avanti!” La voce gli uscì impastata per il dormiveglia da cui era appena balzato fuori.

“E’ permesso?”

“Sì, avanti… avanti!”

“Mi scusi… Buona sera… Sono…”

“Sì, sì. Entri. Si accomodi.”

“Non vorrei disturbarla oltre misura…”

“Ma no. Si accomodi… Si sieda… C’è la poltrona. Mi scusi se non mi alzo.”

“Ma per carità…”

Il visitatore andò verso la poltrona ed esitò, non sedendosi che al cenno di Riccardo.

“Dica…”

“Forse… Non mi aspettava?”

“Non so… Sì, la sua visita era stata annunciata… Però non credevo… Grande solerzia, vedo!”

“Ci sono delle scadenze alle quali…”

“Sì, naturalmente.”

I due si guardarono per un attimo e distolsero contemporaneamente lo sguardo dagli occhi dell’altro. Oltre la finestra c’era l’autunno avanzato.

Il visitatore se ne stava quieto, seduto compostamente, con la borsa di cuoio posata sulle cosce e la schiena staccata dallo schienale. Riccardo aveva gli occhi rivolti al vetro, sul quale – era la sera di una giornata brumosa – vedeva riflessa chiaramente la stanza per intero.

“Ha tutto?” Chiese, ben sapendo che al suo ospite non poteva mancare nulla.

“Sì.”

“Le carte…?”

“Sì: ho tutto.”

Silenzio.

“E… come si svolgerà la cosa?”

“Vedrà: sarà tutto molto naturale… Di solito c’è un po’ di difficoltà all’inizio, un po’ d’imbarazzo, magari. Poi tutto si sistema.”

Ancora silenzio.

“Deve prendere appunti?”

“No…”

“Perché se deve scrivere, c’è il tavolino…”

“No, no. Non si preoccupi: le carte le metterò a posto dopo, senza star qui ad importunarla più del necessario. Mi creda: mi rendo conto anch’io che…”

 

Nel mio impero non tramonta mai il sole. Che sciocchezza! In quel momento, di qua e di là dell’oceano, il sole era abbondantemente tramontato. In nessuno dei luoghi dove Riccardo aveva recitato la sua vita c’era luce.

 

“Sa, – disse Riccardo dopo una lunga pausa – io non ho gran che da dirle. Credo che lei sappia già molto… tutto… Io con i conti sono a posto: date a Cesare quel che è di Cesare…”

“… e a dio…”

“A dio…? Che cosa non avrei dato a dio?”

“Non so… Mi dica lei. Io non mi permetterei mai di giudicare. Io sono qui per…”

“Sì, certo.” Riccardo era seccato. Perché avevano fatto passare quell’individuo? Sorrise all’ingenuità del pensiero.

Certo che un atteggiamento del genere era irritante: educato, fin troppo; silenzioso, non proprio: incapace, invece, di prendere la battuta a tempo debito. Un pessimo attore.

“Da dove vuole cominciare?” Riccardo cercò di sollecitare l’interlocutore; di portarlo sul piano di domanda e risposta: così tutto sarebbe stato più facile e più sbrigativo, anche se non era proprio del tutto certo di volersi sbrigare.

“Oh, faccia lei. Io non…”

“E va bene. Però cerchiamo di finirla. Che cosa vuole da me? Me lo dica chiaramente e glielo dirò.”

“Mi dispiace che si irriti…”

“Io non mi irrito. Mi dica che cosa vuole, la prego!”

Il visitatore aprì la borsa e la inclinò verso Riccardo. Era zeppa di fogli. Con ogni evidenza considerò che quella fosse la risposta, dato che poi annuì, sorrise timidamente alzando le sopracciglia e fece scattare le fibbie richiudendo tutto. Per la prima volta si appoggiò allo schienale della poltrona, in posizione d’attesa.

Non si riusciva a prendere un ritmo decente.

“La manda Emilia?” Fece dopo l’ennesima pausa Riccardo.

“Emilia?… No, no. Io non .. Io vengo…”

“Sì, naturalmente… Naturalmente nel senso di ‘in modo naturale.’”

“Beh, sa anche lei che…”

“Sì, so anch’io che. – Riccardo guardò con le sopracciglia aggrottate il visitatore a cui aveva fatto involontariamente il verso e che aveva abbassato la testa– Così non l’ha mandata Emilia…”

“No… Emilia no…”

“Però lei Emilia la conosce…”

L’ospite insaccò la testa nelle spalle e allargò gli avambracci mostrando le mani ossute.

“Se lei Emilia la conosce, saprà che non era mia intenzione… Sì, insomma, fu lei a mettersi in mente che … Se mi avesse detto subito…”

“Sì, sì, non si preoccupi di questo. Questo non è un problema…”

 

Il caso: il caso come in un romanzo d’appendice. Il caso come negl’incontri dei romanzi settecenteschi. Il caso come per Edipo. Tra milioni, miliardi di persone, il caso vuole che s’incontri proprio quella. Il caso vuole… Ma è davvero il caso a volere? Se il caso vuole, non è più caso: è necessità. Ma poi non fu certo quello il momento cruciale. Fu soltanto un’altra pietra da portare.

 

La porta si aprì senza lasciare a Riccardo il tempo per rispondere al tocco di nocche sbrigativo. Entrò l’infermiera del turno di notte che, senza dire una parola, cambiò il flacone che pendeva dal gancio.

“Lei parla molto bene l’Italiano: – disse Riccardo non appena la ragazza se ne fu uscita – senza nessuna inflessione.”

Il visitatore sorrise, abbassando lo sguardo.

“Fa piacere sentir parlare la propria lingua,” continuò Riccardo, cercando d’intavolare una qualsiasi forma di conversazione sociale con l’ospite.

“Essere poliglotti è una delle prerogative richieste da questo mestiere….”

Silenzio.

“Io faccio l’attore… O, forse, dovrei dire: facevo l’attore…” Riccardo guardò l’altro deglutendo quello che gli parve un grosso spicchio di mela, e questi sorrise, sempre con la stessa aria d’imbarazzo.

“Io sono un attore. Capacità ne avevo… Anche possibilità. Poi sono dovuto venire qua …”

“Dovuto? …”

“Poi sono venuto qua. Qua ho trovato un po’ di radio da fare, qualche cosa per gl’Italiani, che sono tanti ma non ce n’è uno che abbia gusto o cultura. Sono burini insopportabili. Mi sono dovuto imparare il napoletano, pensi un po’. Facevamo le sceneggiate. Io che… La compagnia di quattro cani che riempiva i teatri con porcherie ignobili. Altro che Pirandello, Ibsen, Shakespeare! La gente che piangeva. La gente che urlava per avvertire il buono che il cattivo stava entrando in scena a sua insaputa… Emilia non aveva niente a che vedere con tutto questo. In Italia avevo già fatto delle parti importanti in piazze di tutto rispetto. Le critiche parlavano di me come di una promessa… Ma non sempre le promesse sono mantenute. E non sempre si può dire di chi sia la responsabilità. Il caso…”

Riccardo parlava guardando la stanza riflessa dal vetro contro il buio. Si voltò verso il suo ospite che, attentissimo, taceva.

“Ma insomma, lei se ne sta lì ad ascoltare, senza dir nulla. Che cos’è che le debbo dire io?”

“Io non posso far domande. Mi scusi… E’ lei che, se vuole, può dirmi…”

“Allora vediamo… Lei è curioso di sapere perché mi sono preso la briga di venire fin qua. Eh? Perché da giovani si è irrequieti, ecco perché. Perché l’erba del vicino è più verde. Perché si crede che basti attraversare un oceano per poter nascere di nuovo… Io ho cercato di nascere di nuovo tutte le mattine. Io ho cercato di nascere di nuovo ogni volta che mi spalmavo il cerone sulla faccia, ogni volta che indossavo un mantello, una marsina, una gorgiera, una camicia da guappo. Ma no: ci sono segni che restano indelebili. Non importa che cosa faccia lei per cambiare anima, per cambiare memoria, per… Lei si rende conto di che cosa significhi lasciare tutto e sbarcare in un posto dove non conosci nessuno, dove la lingua non significhi nulla, con i soldi per sopravvivere sì e no una settimana? Io l’ho fatto e sono sopravvissuto. Non potevo che sopravvivere. L’ho dovuto fare… Ho tentato… L’ho fatto. Il risultato?… Giudichi lei, se può.”

Riccardo fissò l’uomo sulla poltrona. Stava lì, immobile, con il solito sorriso mesto e imbarazzato. “Che razza di mestiere è il suo… Un po’ ci assomigliamo, anche se lei, come attore…Io non potevo sapere che Emilia era la sorella di uno di quelli che… Si deve valutare tutto tenendo bene a mente il contesto storico. Bisogna esserci stati. Io stavo da una parte, quella che poi ha vinto… Quella giusta. In quel momento, però, non creda che sapessimo che avremmo vinto. Era la guerra, e in guerra non dico che la morale sia sospesa; dico che la morale c’è ma è diversa: è una morale speciale, come le leggi in tempore belli. E’ una morale d’emergenza.”

 

Quando la camionetta esplose ci fu un fuggi fuggi generale. Lo spettacolo era affascinante. Il sangue aveva il colore di quello del teatro.

 

“Io avevo preso un impegno con il gruppo. Con me stesso. Era una cosa da fare e qualcuno la doveva fare. Sì, io mi offrii: non mi costrinse nessuno. Erano tre ufficiali che contavano. C’era la guerra, sa!… Scoppi ne avevo sentiti chissà quanti, ma quello fu sorprendente… Nella strada di quello che era stato il ghetto, stretta, la bomba fece uno scoppio sorprendente. Scappai anch’io.”

Il visitatore annuì. Il sorriso era sparito.

“Erano tutti in silenzio intorno alla radio che diceva di presentarsi al comando… Il responsabile doveva presentarsi al comando, altrimenti… Ma non si può cedere al ricatto del nemico. Il giorno dopo c’erano i manifesti dappertutto… Bisognava presentarsi, altrimenti avrebbero ucciso dieci italiani per ogni tedesco: tre i tedeschi, trenta gl’italiani.”

 

Vasco e Tom lo guardavano. Riccardo, Yorick era il nome che aveva preso, lanciava delle occhiate brevissime ai due. Il respiro era corto, il cuore batteva nei timpani. Quei tre erano dei nemici e costituivano un pericolo per la causa, per l’Italia, per la libertà. Se non li avessero eliminati, se non li avesse eliminati, avrebbero ucciso, avrebbero fatto chissà che. ‘Era da fare,’ aveva detto Vasco. ‘Sì, non c’è dubbio,’ aveva detto Tom. Trenta italiani per tre tedeschi. Trenta scelti come? Ma, in fondo, che importanza ha come sono scelti? Sono trenta e basta.

 

“Li vidi quando li caricarono sui due camion: mi passarono davanti a uno a uno per un attimo, e per un attimo li vidi dentro, anche se ero dall’altra parte della piazza. La distanza non toglie nulla. C’erano degli uomini anziani, dei vecchi, mi pareva. Di sicuro erano meno vecchi di quanto non sia io adesso. Uno aveva i capelli bianchi lunghi e la faccia grossa e rossa. Aveva un occhio pesto. Mio nonno era così. Uno poteva avere una quarantina d’anni, forse meno, e aveva la giacca strappata su una spalla. C’erano delle donne. Erano tanti. Nessuno diceva niente, nemmeno i soldati che li spingevano. Poi c’era lui: un ragazzo con gli occhi sbarrati, rossi. Io avevo fatto saltare la camionetta. Trenta vite contro una.”

 

‘Non si può cedere al ricatto. Hai fatto il tuo dovere,’ aveva detto Vasco.

 

“Glie l’ho detto: la morale di guerra è diversa: non sei una assassino se uccidi i nemici. Altrimenti è finito il gioco… La mia vita contro trenta vite… Sulla bilancia, il mio piatto pesava di più, molto di più. Se muori tu è finito il mondo. E allora, mi dirà lei, per quale libertà si combatte? Per la libertà di chi? Per la nostra e basta? Avevo bisogno di tempo per riflettere, di calma. Com’è possibile ragionare in quelle circostanze? Il mondo non sta fermo: è come essere su una giostra impazzita: la scelta di schierarsi da una parte, il dovere, i compagni che ti dicono che va bene così… Però loro non l’avevano fatto… I manifesti erano per me… La radio… In trenta… In cento… Uno solo… Che differenza fa? Prima o poi arriva per tutti il momento, ma potevo essere io a scegliere quando? I tre erano nemici… Io potevo scegliere il loro momento: è la guerra. Forse il come e il quando stanno scritti nel destino, nel caso. Per gli altri, per i trenta, avevo bisogno di calmarmi, di pensare freddamente. Avevo bisogno di tempo… Capisce?”

 

Dell’esecuzione si seppe nel pomeriggio.

 

Il visitatore, pure attento, non sembrava partecipare all’emozione di Riccardo. Continuava a tenere quella sua aria timida, come se volesse scusarsi di essere lì.

“Non mi resi conto subito che ormai non c’era più niente da fare. Continuavo a figurarmi la scena: io che mi consegno ai tedeschi. Mi avrebbero torturato? Mi avrebbero ucciso certamente. Ma prima mi avrebbero torturato. Avrebbero voluto sapere degli altri e io avrei ceduto, avrei raccontato tutto, avrei fatto finire non trenta: trecento vite! Che diritto avevo di fare questo? Io ero debole, come sono tutti gli uomini, come sono io adesso. Solo sul palcoscenico ci si può illudere di essere forti. Ognuno di noi è un universo effimero, un universo che non vale nulla. Però è l’universo. Non potevo presentarmi… Ma anche se lo avessi voluto, quei trenta non li avrei più salvati… E allora?…”

Riccardo guardò il suo ospite, interrogandolo con gli occhi. Nessuna reazione.

“D’improvviso ero diventato un assassino. Quando avevo scelto di schierarmi, forse avevo messo in conto anche quello. Ma quando ci sei dentro… E’ come morire: non puoi credere che capiti a te finché non ci sei dentro. La nostra coscienza è pronta ad assolverci, sempre. Anzi, è lei che c’implora di concederle di assolverci. Ma evidentemente di coscienze ce n’è di vari gradi: proprio come in tribunale: fino alla Corte di Cassazione. E la mia Cassazione…”

Ci fu una pausa lunghissima, senza una sola mossa da nessuno dei due.

“Si passa la giornata pensando a quello: il cervello non ha posto per nient’altro. A volte ci si sorprende a pensare ‘sarà vero che io?…’ Per un attimo ti stacchi, poi arriva come una fucilata. Si va a letto, ci si addormenta, ma è solo un dormiveglia, con quel cancro in testa. Ci si sveglia. ‘Che sogno orribile ho fatto! Meno male che…’ E invece è successo davvero. E’ come un salto: non puoi tornare indietro. La tua anima, se esiste una mostruosità del genere, è segnata per sempre. La tua anima è come un vaso cinese andato in mille pezzi che nessuno potrà più riparare. E anche se t’illudi di ripararlo, e lo fai così bene che nessuno si accorge del fallo, nella sua struttura ci sono le fratture: è rotto per sempre, non è più il vaso cinese che ti avevano dato. Non c’è ritorno. E’ per sempre. Mi capisce?”

Non era possibile stabilire se quello capisse. Chi poteva capire davvero?

“Non potevo più camminare in città. I manifesti erano ancora appiccicati ai muri, a brandelli, nascosti sotto altri: Se ricomparivano da sotto una coltre di altri manifesti strappati erano illeggibili… Illeggibili non per me… Arrivarono le colonne di Americani, d’Inglesi, di Australiani… Impiegarono ore a passare tutti: erano una forza tremenda. Era la liberazione. Eppure tutti quegli uomini, tutte quelle armi, capaci di conquistare i continenti non smuovevano di un millimetro il macigno che avevo dentro. Non c’è forza umana che lo possa fare. E’ strano che per un delitto compiuto sull’uomo, la colpa sfugga così completamente alla giurisdizione dell’uomo stesso. Ma forse non è vero: ognuno è giudice di se stesso, incorruttibilmente giusto perché è un giudice al quale non sfugge nessun particolare e ad ogni particolare sa attribuire il peso corretto con precisione assoluta. Io non so che cosa ci sia negli altri uomini, ma è giusto che ogni universo abbia le proprie leggi.

“La vita normale riprese tra le macerie. Tornai a recitare nei teatri rimessi su alla meglio. Forse mi dava sollievo, non saprei… Giravamo per l’Italia chiedendo passaggi ai camion. Dormivamo dove si poteva: nelle canoniche, nei camerini, quando c’erano, persino in un fienile, una volta… Oggi potrebbero essere dei bei ricordi… Si ricorda il primo libro dell’Eneide? I rari nantes a rischiare di morire annegati nel mare, di notte, al largo di Cartagine; eppure un giorno, rivedendola con la memoria degli scampati, quell’ora di angoscia si sarebbe trasformata in… Io non ho bei ricordi, sa. Io non sono scampato a niente. Tutto quello che è inciso nella mia testa è filtrato, deformato da quello scoppio, da quei trenta disgraziati così ignobilmente leggeri sul piatto della bilancia. E’ come se lei, cucinando, gettasse all’impazzata manciate di sale sulle pietanze: per me ha tutto lo stesso sapore.

“Non ce la facevo più: pensai di uccidermi. Si renderà conto anche lei di quanto sia ridicola la cosa: scambio trenta vite per la mia, poi decido che non mi va più e mi ammazzo. A quel punto, se non altro per coerenza, non avevo alternativa: dovevo vivere. Per che, non saprei dire, ma non potevo far altro che stare al mondo. Arrivai ad invidiare quei trenta: erano diventati eroi, anche se qui ci sarebbe da discutere… Si erano tolti da questo inferno gratuitamente, senza che loro lo avessero chiesto, senza che avessero assaggiato sul serio che cosa voglia dire vivere a dispetto di noi stessi, senza nemmeno pensare che si possa desiderare la morte. Io neanche questo potevo permettermi. Non si scandalizzerà se le dico che quei trenta li odiavo… E li odio ancora… In fondo che cosa ho fatto? Ho causato la loro morte. E con questo? Lei ha motivo di pensare che la morte sia un fatto evitabile? Ritardabile, forse, se abbiamo voglia di credere che non sia vero che tutto è stato già scritto. Ma evitabile? No davvero…Ciò che possiamo cercare di evitare sono i mali, le sofferenze. E loro a me di sofferenze ne hanno inflitte… E non capisco se ho espiato abbastanza o se si pretende ancora pena da me. Che qualcuno si decida a presentarmi il conto!

“A volte, da disperato, spero che non esista il libero arbitrio, che sia tutto determinato. In quel caso, senza libertà, non esisterebbero atti morali, non ci sarebbe colpa. Allora io sarei solo strumento, sarei solo vittima di un piano che mi sfugge, che è al di là della comprensione degli uomini e che, dunque, gli uomini non sono chiamati a tenere in considerazione. Perché proprio io, mi potrei chiedere. Ma che m’importerebbe? Il sollievo sarebbe così grande che non m’importerebbe di nulla.

“Un po’ di sollievo me lo diede riprendere a viaggiare con la compagnia. Sì, so che all’inizio mi diede sollievo. Non vedere più quei muri, quelle facce… Vasco che mi veniva a trovare e cercava di parlare d’altro. Faceva il meccanico. Arrivava sporco di morchia. Mi parlava di politica, del Partito. Lo odiavo. Anche lui. Odiavo tutti. Nessuno, al di fuori di chi era stato coinvolto, sapeva… Non i miei compagni di teatro, non i miei genitori, mia sorella: nessuno. Non c’era pericolo che Vasco parlasse, questo era certo, e gli altri, anche loro… Ma che cosa m’importava?… Fu una decisione presa in una notte: chiesi il passaporto e il visto. Dopo un mese partivo da Genova su una nave, in terza classe… Mi pare che qualcuno una volta mi abbia detto che ci sono malattie che spariscono se attraversi il mare…”

Senza nemmeno bussare, l’infermiera entrò con il vassoietto delle pillole. Ne mise un po’ sul comodino, controllò il flacone scostando appena la carta argentata che lo avvolgeva e uscì. Non diceva mai una parola.

“Vede? Qui nessuno mi parla. Quel che mi doveva dire il medico me l’ha detto in un minuto… Anche lei non è che dica gran che.”

“Mi scusi… Io…”

“Naturalmente: io sono l’attore e allora ricomincio il mio monologo. Arrivai qui come un emigrato qualunque: avevo perfino la valigia di cartone, e, dopo qualche lavoro da disperato, come le ho detto ricominciai la mia carriera. Tutto quanto avevo costruito, tutte le aspettative, le illusioni… Perfino le mie capacità… Tutto finito. Era già finito anche di là: da una parte o dall’altra del mare, non fa differenza. L’universo si sposta con noi. Quei trenta mi avevano condannato a vivere e io non potevo cercare di fare, di diventare, di avere, di dimenticare per un secondo… Non ne avevo il diritto. Non avevo diritto nemmeno a un momento di sollievo.

“Incontrai Emilia, italiana, niente a che spartire con il teatro. Ci frequentammo per un po’ e lei credette di potersi costruire una vita con me. Che differenza poteva fare? Non che mi dispiacesse: no, no, non creda che mi dispiacesse. Ma quando la testa è piena delle cose che riempiono la mia, di sicuro non ci si può innamorare. Anche questo mi avevano portato via quei trenta. Il sollievo, magari momentaneo, dell’amore non era cosa che mi spettasse. Cominciammo a stare insieme. Lei non sapeva di me altro che le cose che non avevano importanza. Del resto nemmeno io sapevo molto di lei. Parlavamo pochissimo. Una sera, ed erano passati mesi da quando avevamo cominciato a vederci, mi disse di suo fratello, del ragazzo dagli occhi sbarrati che non aveva pesato sulla mia bilancia. Aveva una foto nel borsellino. Io le dissi che era finita. Lei non capì. Lasciarla non entrava nel contesto della scena. D’altra parte, come poteva capire? Né io capii la sua disperazione, tanto sproporzionata mi parve al momento. Dopo tutto io non le avevo dato nulla. Non poteva non essersi accorta che io di amore non potevo darne. Anche piangendo, fu insopportabilmente dignitosa. Ricomparve solo anni dopo, alla fine di uno dei miei spettacoli, e mi disse che il bambino che era con lei era mio.”

 

‘Perché non me l’hai detto allora?’

‘Io non incastro nessuno. Sapevo quel che facevo.’

 

“Le proposi di vivere insieme, di sposarci, se voleva.”

 

‘Siamo troppo piccoli per te.’

 

“Non mi scriveva, ma ogni anno mi mandava la foto del bambino. Pensi: tre ne ho ammazzati per la libertà, trenta ne ho ammazzati per salvarmi la pelle e uno l’ho messo al mondo in quella maniera. Un bilancio di cui andare fieri, non le pare?”

Il visitatore guardò discretamente l’orologio.

“E’ ora?” Chiese Riccardo.

“Senza fretta, se ritiene…”

“Quando il medico è venuto e senza tanti complimenti mi ha detto che le metastasi sono dappertutto e che è inutile qualsiasi terapia, il mio cuore ha avuto un sobbalzo. Ho avuto paura. E ho ancora paura. Fa parte anche questo dell’espiazione?”