Io non so se quelli fossero eroi ma temo non lo fossero perché la morte è arrivata senza che loro potessero decidere se sottrarsene o se affrontarla. Personalmente credo che fossero, né più né meno, come i tanti ragazzi che ci arrivano malati irreversibilmente dopo aver partecipato alle “missioni di pace”.
Un atteggiamento che accomuna quei soldati in genere e che, lo confesso, mi ha sorpreso, è che”ci credono”: sono davvero convinti che ciò che fanno sia per portare qualcosa di buono fuori di casa, e quel qualcosa di buono portarlo a qualcuno che sta peggio di loro. Poi, magari, ci sarà anche l’attrazione di uno stipendio che spesso toglie da qualche guaio la famiglia, ma prima di tutto c’è la buona fede. Giusta o frutto d’inganno, non so dire.
Ormai ne abbiamo visti tanti, sicuramente troppi, e di molti non abbiamo incontrato che pezzettini di qualche loro organo malato che forse non dicono niente a chi non sia immerso fino al collo nella disperazione sempre uguale a se stessa e sempre ugualmente straziante di un ragazzo che sa di morire, spesso male, e di chi in quel ragazzo ha
riposto amore, speranze, auguri, sogni. Noi, in questo laboratorio che si vuole chiudere, in quel dolore siamo immersi quasi quotidianamente e, dopo un po’ di anni, il callo non si è formato: l’ultimo è come il primo. Anzi, peggiore del primo perché l’esperienza ci ha sbattuto sul naso la nostra incapacità, e per nostra intendo di tutta la Medicina, d’impedire quei destini. E perché l’esperienza, riconfermata anche in questi giorni da strepiti o da silenzi, è che non si vuole che si tent i di mettere mano a quei destini modificandoli nell’unica maniera che un Uomo degno di questo nome dovrebbe desiderare.
Non so se chi è morto spappolato in Afghanistan fosse un eroe, ma posso dire con certezza che la loro morte è infinitamente meno “impegnativa” di chi impiega anni di un’agonia senza speranza per morire al di fuori di ogni ribalta. Agonie che resteranno senza soluzione per volere di altri uomini.
Io faccio ricerca medica da 37 anni e per decenni ho frequentato gli ospedali e le loro sale operatorie. Mai mi è venuto in mente di chiedere ad un paziente (dal latino patior, cioè soffro) quali fossero le sue inclinazioni religiose, politiche, sessuali o chissà che altro. Mai ho chiesto se chi si stava fidando di me o chi sperava che io potessi aiutarlo a lenire la sua sofferenza avesse la fedina penale pulita. Non ho mai avuto la presunzione di credere che stia a noi cavillare o, peggio, cercare vendetta quando qualcuno chiede aiuto per i propri bisogni primari. E la vita lo è. Forse è il primo fra quelli.
Non scambiate per retorica ciò che ho scritto. Fatevi un mese di laboratorio da noi, fatelo prima che qualcuno che sia paludato d’ipocrisia o al riparo in un nascondiglio di viltà, ma in ogni caso al servizio d’interessi che fatico a definire nobili, provveda a chiuderlo, e avrete qualche elemento di prima mano per giudicare più serenamente.