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Basta con i vaccini: ora faccio solo il letterato

Di 22 Febbraio 2017 6 commenti

Siate gentili: smettetela di chiedermi consigli sui vaccini. Mai ne ho dati in passato e mai ne darò. Questo a maggior ragione ora con tutte le violenze che stanno correndo.

Nel massimo del mio disinteresse, ultimamente sto ricevendo critiche grottesche a proposito dell’articolo sui vaccini che, molto poco saggiamente, mia moglie ed io abbiamo pubblicato.

La prima critica è che il giornale che ha pubblicato i dati occupa un posto di bassa classifica per quanto riguarda l’impact factor. Prescindendo dai motivi per quella scelta, una scelta che non fa certo onore al salottino buono, uno scienziato critica una ricerca in base a ciò che la ricerca riporta e non ad altri criteri che nulla hanno a che vedere con la ricerca stessa. È chiaro che, se chi lancia la critica scienziato è solo sul biglietto da visita e nutre interessi non proprio cristallini, avendo la certezza di rivolgersi ad un pubblico di livello culturale, intellettuale e morale non proprio eccelso può difendere con successo i propri interessi.

Critica numero due: manca il confronto con un campione di riferimento. A parte il fatto che il confronto c’è per ogni analisi che effettuiamo, qui non c’è nulla da confrontare: un vaccino, così come qualunque farmaco, soprattutto se iniettabile, non può contenere inquinanti e la cosa finisce lì. Qualche genio pretende che si faccia il confronto con farmaci come, ad esempio, gli antibiotici. Indipendentemente da tutto, secondo i geni di cui sopra trovare ferraglia negli antibiotici significa una specie di “mal comune, mezzo gaudio” e, dunque, automaticamente un veleno diventa ipso facto innocuo. Insomma, l’organismo perde ogni diritto e d’ora in poi si comporta come desidera chi siede nel salottino.

Terzo: Qualche vaccino era scaduto e, dunque, l’analisi non vale. Il genio di turno non sa che la scadenza si riferisce al decadimento di efficacia del principio attivo e che, dunque, non ha nulla a che spartire con l’inquinamento da particelle che si conservano inalterate per omnia saecula saeculorum. Quindi, un vaccino uscito fresco di laboratorio con tanto di pezzi di materiale inorganico al seguito rivelerà intatto il suo contenuto senza limiti di tempo.

Quarta critica: abbiamo cominciato a lavorare 15 anni fa sui vaccini e, dunque, alcuni di loro, come quelli influenzali, non esistono più. Ammetto che, pur essendo ormai esperto di stravaganze, questa non l’ho capita.

A parte tutto ciò, qualunque scienziato sa che, se si vuole contestare un esperimento, non c’è altra scelta che rifarlo pari pari e vedere che cosa salta fuori. Forse qualcuno ricorderà che io invito da anni i geni a farlo, ma i geni preferiscono scappare strepitando.

Ora sono appena arrivato dall’estero dove, insieme con mia moglie, ho tenuto almeno una decina di ore di lezione ad un livello che, ahimè, non appartiene allo Stivale. Al nostro ritorno abbiamo trovato vari messaggi che si complimentano con la nostra ricerca, uno dei quali arrivato da un’università americana.

Ma, geni sintetici, non temete e rallegratevi: a me non importa nulla: io mi occupo di letteratura e sono pure più bravo:

 

TREDICI

 

“O Berto, così non si può mica andare avanti!”

Erbacci e Casadei si erano appoggiati allo schienale della sedia pieghevole e guardavano trionfanti i due sconfitti.

“Ascoltami, Berto: o stai lì con la zucca o io a beccaccino in coppia con te non gioco più.”

“Nives, il Sangiovese, che pagano i signori qui!”

La Nives arrivò, portando la bottiglia, e con il sedere sfiorò la spalla di Berto.

Sì, era vero: Berto aveva fatto due o tre giocate incomprensibili; incomprensibili da fuori, ma da dentro, da chi avesse potuto dare un’occhiata a quel che c’era nel segreto più impenetrabile e insospettabile della sua testa…

“La Nives: te hai in mente quella lì e non te la cava più nessuno.”

“Ma cosa dici!”

“Dai, dai, che sembri un cagnolino in amore…”

Era la verità: Berto non aveva in mente altro che la Nives. Ma che colpa aveva lui? Quando il povero Sforacchi era morto, sua figlia che stava in città, a Forlì, aveva venduto il bar ed era arrivata lei, la Nives, con tutto il suo bagaglio di capelli neri, di tette e di sedere. Per Berto era stato un colpo di fulmine, ma lei…

Berto uscì sulla strada, fuori dalla nebbia di Alfa e mezzi toscani. Era buio. Si sedette sul Mosquito e si alzò sui pedali, mulinando furiosamente finché, crepitante e riottoso, il motorino non si decise ad avanzare con i mezzi propri. Non c’era niente da fare: a casa bisognava andarci.

Il portone era aperto – “I cani… senti che puzza! Quando a un cane gli scappa dice ‘devo andare un momento a casa da Berto…’” – e già da lì si sentivano gli strepiti.

“Quando arriva tuo padre, te le pela lui le chiappe!”

“Mamma, zio mi ha mangiato il formaggino!”

Salì le scale nella luce fioca delle lampadine che erano sistemate un piano sì e uno no. Il fragore non poteva essere quello della credenza che cascava: la credenza era già cascata la settimana prima e adesso era dal falegname e poi doveva andare dal vetraio. La tavola? Non possono aver rovesciato la tavola. Berto aprì la porta. Sì, era la tavola.

I bambini gli corsero incontro urlando. Incolpavano sicuramente zio di qualche misfatto ma, almeno per ora, data l’eccitazione, le argomentazioni erano alquanto confuse. La Nerina stava dall’altra parte della stanza con le mani sui fianchi e l’aria feroce. Elvino sorrideva imbarazzato.

“Garda, babbo: zio ha ancora il formaggino in bocca!”

Elvino lasciò intravedere per un attimo il corpo del reato che gl’impastava lingua e denti.

Il silenzio durò non più di due o tre secondi. Si guardarono tutti, e poi le grida ripresero assordanti.

Raddrizzata la tavola, si sedettero per cenare.

“Zio Elvino ha tirato su con il pane tutto il ragù.”

Mangiarono i garganelli sconditi.

“E poi mi ha mangiato il formaggino…”

“Il mio a me me l’aveva mangiato per merenda!”

“Eh, no, Berto: pane non ce n’è più. Elvino…”

Berto guardò per un momento il cognato. Si chinò sotto la tavola, si risollevò e allungò il palmo aperto verso di lui, aprendolo e chiudendolo. Elvino si cavò le ciabatte e con un piede le fece strisciare sul pavimento. Berto s’infilò le ciabatte, le sue ciabatte, sì alzò faticosamente e andò in camera da letto. Se non fosse stato per la Nives, per il pensiero della Nives, per il contatto che sentiva ancora sulla spalla, per il profumo di Felce Azzurra, la sua sarebbe stata un vita ben miserabile.

In cucina urlavano ancora, moglie e figli. Elvino no. Lui mangiava e basta. Qualunque cosa.

“A letto! Filate a letto che babbo è stanco e non vuole sentire baccano! Al Cantinone non si scherza mica: là si lavora!”

L’acqua scrosciava. La Nerina lavava i piatti. Berto pensava al buio.

Quando la porta si schiuse, Berto fece finta di dormire. Se fosse stato sveglio avrebbe dovuto subire il rapporto della giornata e, magari, avrebbero finito per discutere ancora di Elvino. La Nerina si sedette sul letto facendolo scricchiolare, poi si stirò le gambe, come tutte le sere, lasciando che le giunture crocchiassero. E se d’improvviso, per incanto, la Nerina si fosse trasformata… Come sarebbe stata la notte con la Nives? Mica così di sicuro! Meglio pensarci poco.

La mattina Berto si alzava presto, per fortuna. Per fortuna, così non doveva incrociare moglie e figli vocianti. Elvino no. Lui non lo avrebbe incrociato di certo, anche se ne vedeva la testa, con tanto di retina, spuntare dal divano-letto sistemato vicino all’acquaio. Non aveva mai chiesto a che ora si alzasse Elvino. Bisognava solo far piano per non disturbarlo, sennò poi gli veniva mal di testa e doveva mangiare dei biscotti per farselo passare. “Te lo fai tu il caffè?” gridava sempre la Nerina quando Berto il caffè l’aveva già bevuto da mezz’ora. Il caffè…: la Miscela Leone. Elvino si girava dall’altra parte.

Il Mosquito faceva fatica ad accendersi e a volte bisognava pedalare anche mezzo chilometro. Certe mattine avrebbe fatto prima ad andarci a piedi al Cantinone. Che razza di mestiere, quello! Tira su le cassette, tirale giù, caricale sul camion, scaricale dal camion… Tutto il giorno, tutti i giorni. Assirelli invece… Assirelli… Quello lì era nato con la camicia! Lui faceva il rappresentante, girava in giacca e cravatta, aveva la Topolino della ditta. E le donne!… Una in ogni città: a Lugo, a Faenza, a Cesena. E d’estate… a Rimini, a Riccione… La sua zona arrivava fino a Cattolica e una donna ce l’aveva anche là. E non ci voleva mica Sherlock Holmes per accorgersi degli occhi dolci che gli faceva la Nives! Al bar lui non parlava con nessuno, a parte due o tre tali, rappresentanti anche loro, che si fermavano per un caffè quando erano di passaggio. Era con loro che Assirelli parlava a voce alta delle sue donne e quelli gli parlavano delle loro. “Balle!” dicevano gli altri avventori appena Assirelli se n’era andato. Ma intanto stavano tutti lì, immobili ai loro tavoli, con il fiato sospeso e gli occhi a palla, facendo finta di niente, con le carte fra le dita, a mezz’aria, e non si perdevano una parola. La Nives continuava ad andare avanti e indietro, dal bancone al tavolino di Assirelli e con la scusa di pulire con lo straccio gli metteva le tette sotto il naso. Lei gli parlava e lui rispondeva appena. Il rappresentante… viaggiare… dormire alla locanda… mangiare in trattoria… e la ditta paga! Chissà com’era la casa di Assirelli? Di certo non come la sua. Di certo non aveva moglie e, se anche l’avesse avuta, non sarebbe stata di sicuro come la Nerina. Quella là doveva avere le unghie pitturate, anche nei piedi, magari, e chissà che altro… E la Nerina non se l’era mica sposata da sola: prendendo lei s’era preso in casa suo padre che era rimasto vedovo. La scocciatura più grossa era andarselo a riprendere tutte le sere all’osteria e non capitava spesso che lui fosse in condizione di fare la strada a piedi. Allora si faceva caricare docilmente sopra un carretto, cercando di non dare troppo disturbo, e si lasciava portare a casa. Le scale se le doveva fare con le sue gambe, invece. Comunque uscivano tutti dalle porte sui pianerottoli e davano una mano. “C’è da portare su Baldrati!” e per i bambini era una festa. Fosse per il vecchio, che comunque morì senza accorgersene dopo quattro o cinque anni, non sarebbe stata una gran fregatura. Era il ragazzo il problema. Il ragazzo… Ormai Elvino era vicino ai trenta e gli si era infilato in casa al seguito del padre, così, senza chiedere permesso a nessuno. Avevano anche dovuto comprare il divano-letto per lui e l’avevano sistemato in cucina, di fianco alla branda di Baldrati. Lavorare? Lavorare non se ne parlava. “E’ sfortunato, il poverino!” diceva la Nerina.

“Macché sfortunato: quello lì ha la camicia stretta! Se ne ha voglia, al Cantinone ce n’è da fare…”

“Al Cantinone… E’ un lavoro di fatica.”

“Di fatica? Ma no! Glielo posso fare io il lavoro. Porto le casse mie e le sue. Lui mi guarda e poi passa a prendere lo stipendio. Così non suda… O Nerina, si capisce che è di fatica!”

“E l’ernia?”

“Ma quale ernia!”

“Lo sai anche te che ha avuto l’ernia da piccolo e che ha portato anche il cinto.”

Elvino annuiva, tastandosi là dove una volta c’era stato il cinto.

“Nel cervello ce l’ha l’ernia quello lì. Anzi, ce l’ho io il cervello malato a tenermi in casa…”

E così la discussione finiva con strepiti, porte sbattute e musi tenuti per giorni. Allora Berto aveva deciso di tacere e sopportare. Se almeno Elvino non gli prendesse le ciabatte… Per fortuna c’era la Nives che gli teneva occupata la testa fuori di casa e fuori del Cantinone. Quando, la mattina che faceva ancora buio, stava a cavallo del Mosquito con la sigaretta che gli si consumava in bocca, si concentrava e sentiva dietro di sé, seduta sul parafango, la Nives che lo teneva stretto alla vita e gli schiacciava le tette sulla schiena. “Ma come vai forte, Berto! – diceva la Nives stringendolo ancora di più– Mi fai venire paura!” E Berto si piegava in curva come Omobono Tenni e accelerava finché il Mosquito non gettava la spugna e si fermava con una salve di starnuti. Allora c’era da pedalare fino al Cantinone.

 

“O Berto, questa è l’ultima che mi fai. Adesso a beccaccino vai a giocare da solo!”

Berto non poteva prestare attenzione. Dietro di lui, proprio accanto, stava seduto Assirelli. La Nives aveva appoggiato il gomito sul tavolino e se Berto si spostava appena un po’ – e Berto si spostava – le toccava con la schiena il sedere. Ma non era quello il motivo della distrazione dal beccaccino. Anzi, quel contatto era sprecato, non c’era modo di goderselo e di tenerlo fra i ricordi da rivivere a letto e in motorino. Assirelli diceva, come per caso, che di lì a poco, tre mesi al massimo, gli sarebbe arrivata la Seicento. La FIAT, diceva lui. La FIAT! Berto ne aveva vista una quella volta che era stato a Forlì, la volta in cui aveva visto la televisione, e un’altra si era fermata, non saranno state neanche due settimane, proprio davanti al bar. “Di che colore?” chiedeva la Nives con un sottovoce che sovrastava il chiasso del bar. “Azzurra.” Una FIAT azzurra! Una mazzata.

Berto non ce la fece a dormire. Non per le ciabatte che non si trovavano più e neanche per Elvino che non era andato a presentarsi da Amadori, il meccanico, perché nessuno lo aveva svegliato e il lavoro l’aveva preso un altro. Per la FIAT. No, la FIAT no: quello era troppo! E’ proprio vero che agli ubriachi tutti danno da bere. Anche il destino. Quello là ha tutte le donne che vuole e la Nives gli casca addosso. Mal che vada arriva a casa e ha una moglie con le unghie pitturate. (Di questo non era sicurissimo, però…) Ha una Topolino pagata dalla ditta e un bel giorno la ditta gli dice “Egregio signor Assirelli: via la Topolino! La Seicento le compriamo!” No, Assirelli, stavolta hai esagerato! A costo di rovinarmi…

Furono giorni di passione. La disamina obiettiva delle condizioni economiche e delle prospettive future dava risultanze talmente chiare… Ma si vive una sola volta! E poi Assirelli aveva detto tre mesi. Tre mesi…: quasi estate. Quello si sarebbe caricato la Nives sulla FIAT e sarebbero andati al mare, non a Rimini o a Riccione o a Cattolica, dove lui aveva delle donne; a Viserba, magari, o a Gatteo. E si sarebbero stesi sulla sabbia, con un’aranciata e due cannucce, a fumare e… Il solo pensiero lo faceva rabbrividire. E se si fosse presentato lui, invece, lui Berto, con una FIAT, sì, sì, con una FIAT e, sorprendendo la Nives nel momento in cui lei stava salendo con Assirelli, “Nives, – le avesse detto – andiamo a Rimini. Io sono puro e posso andare dovunque: sono fedele solo a te.” La Nerina non contava. Allora lei, lei la Nives, senza degnare d’uno sguardo Assirelli, senza neanche chiudere la portiera dell’altra FIAT, quella del cattivo, si sarebbe seduta accanto a lui, lui Berto, e avrebbe esitato solo un attimo prima di baciarlo castamente sulla guancia, mormorando “Alberto…” Poi, via, verso il mare, verso la felicità.

Era in trance, Berto, quando si fermò davanti all’officina di Amadori. Sul portone di legno era inchiodata la réclame della Seicento.

“O Berto, e tuo cognato?” Amadori sbucò da sotto un camioncino, più nero di un ascaro.

“Mio cognato?”

“Elvino. Non si è mica fatto vedere.”

“Lo so, lo so… Ascolta, Amadori, quanto costa la FIAT?”

“La FIAT? Boh… Dei milioni… Anche di più… Dei miliardi, credo.”

“Ma no, dico, la Seicento. Non la fabbrica: la Seicento.”

“La macchina? Cinque e novanta. Comprata bene, seicentomila su strada.”

“Seicentomila lire?”

“Tonde.”

“Alla faccia! E per comprarla che cosa ci vuole?”

“I soldi.”

“Tutti?”

“Anche a rate.”

“A rate… Quante?”

“Fino a trentasei. Ma a te che cosa te ne frega?”

Sì, sì, Amadori aveva ragione. Seicentomila lire: una cifra folle.

Ma al bar non si parlava d’altro. “Appena gli arriva la FIAT…” aveva sentito che la Nives diceva. Ma poi quel patacca di Erbacci s’era messo a gridare chissà che cosa e lui non aveva capito il seguito della frase. Però lei aveva detto “Appena gli arriva la FIAT…” Appena gli arriva la FIAT vuol dire che hanno intenzione di fare qualcosa, che sono già d’accordo per qualcosa. La FIAT… Casadei aveva preso il coraggio e, seguito dagli occhi del bar, era andato al tavolo dove Assirelli stava solo davanti al caffè corretto con lo Stock. “Sentivo dire che vi arriva una FIAT, – disse restando in piedi. – Che cilindrata?” “Seicento,” aveva risposto Assirelli dopo avere ben squadrato l’interlocutore. “Seicento… – aveva detto Casadei annuendo. – Mi dicono che sia la migliore.” Il bar era muto.

 

Stavolta faccio una pazzia. Vadano tutti a bacchetti. Io faccio una pazzia.

 

“Sono trentasei rate, ma ci vuole l’anticipo.” Amadori si era spazzate le mani sullo straccio che teneva nella tasca della tuta e si era seduto al tavolino in fondo all’officina, proprio sotto la foto della Pampanini.

“L’anticipo?”

“E’ la regola.”

“E quanto sarebbe?…”

“Centomila.”

“Centomila?”

“Centomila.”

“Tutte in una volta?”

“D’anticipo.”

“Amadori, perdi il cliente.”

“Ascolta, Berto, facciamo così: tu mi dai cinquantamila lire…”

“Cinquantamila lire!…”

“Venticinquemila oggi e venticinquemila quando tiri la paga…”

“Ho diecimila lire adesso, subito.”

“Diecimila adesso e quarantamila quando tiri la paga…”

“E poi?”

“E poi quando ti arriva la macchina mi dai il Mosquito.”

“E poi?”

“E poi mi firmi le cambiali. Trentasei cambiali.”

“Da quanto?”

“Fammi fare i conti.” Amadori tirò fuori dal cassetto un notes a quadretti e con un mozzicone di matita si mise a calcolare. Berto si sentiva il cuore negli orecchi. “Quindicimila e novecentocinquanta,” concluse Amadori.

“Fa vedere… Ma viene di più di seicentomila!”

“Seicentomila se paghi sull’unghia. Il resto sono le spese, gl’interessi…”

“Quando si comincia a pagare?”

“Il mese prossimo.”

“Prima che arrivi la macchina?”

“Prima che arrivi la macchina.”

“Arriva fra tre mesi?”

“Tre mesi.”

“E tutti i mesi, quindicimila…”

“…novecentocinquanta.”

“Io prendo trentottomila lire al mese…”

“Non te l’ho mica chiesto io di comprare la macchina.”

“Dove c’è da firmare?”

“Aspetta che ti tiro fuori il contratto… Ecco, firma qui sotto.” Amadori puntò un indice che sembrava uno zucchino bruciato in fondo al contratto e con gli occhi annebbiati Berto firmò.

“E domani passi di qua e firmi le cambiali.”

Il Mosquito non si accese. Ma che cosa importava?: ormai non era più suo.

 

“Berto, non dici niente?” Ma che cosa voleva la Nerina?

Tre mesi c’era da aspettare. Tre mesi: novanta giorni. Tre settimane di ritardo da Assirelli.

“Ma come non si compra la Miscela Leone?”

Basta con i lussi!: niente sigarette, niente miscela per il Mosquito. La Miscela Leone… Figurarsi! Al bar non si poteva rinunciare, naturalmente – eh, sennò tutto quel sacrificio… – però invece del Sangiovese si poteva prendere una spuma.

 

“Berto, ma hai preso una botta in testa?”

“Ho i miei pensieri, Babini: lasciami stare.”

In effetti Berto si comportava in maniera ancor più strana del solito. Era diventato d’una tirchieria incredibile, “Fra tre mesi…” diceva, e poi “Fra due mesi…” come se annunciasse la fine del mondo, e soprattutto guardava la Nives e le sorrideva con l’aria di dire “Vedrai, vedrai…” e lei ricambiava lo sguardo come si ricambia lo sguardo d’un matto. Certo tenersi tutto per sé il segreto della FIAT non era facile, ma l’uomo è chiamato anche a questo.

 

“Allora?”

“Fatto, fatto.”

Amadori l’aveva incrociato per strada una domenica pomeriggio, quando lui era uscito controvoglia  con la Nerina.

“Fatto cosa?” chiese la Nerina.

“Fatto.”

“Cosa?” Amadori era veramente scemo. Vada in banca e controlli! La prima cambiale era stata regolarmente pagata. Quindicimilanovecentocinquanta lire. Cinquantamila tutte in un colpo, poi quindici e novecentocinquanta tutti i mesi, tutti i mesi per tre anni…

“O Nerina, e se Elvino si mettesse a lavorare?” Quella era la maniera per non rispondere alla Nerina e, magari, per vedere se l’ospite cominciasse a contribuire almeno al suo mantenimento. “Sì, dico, grazie a Dio l’appetito non gli manca. Si vede che l’ernia lo lascia tranquillo. Potrebbe essere l’occasione per tirarsi su le maniche e…”

“Oh, insomma, sempre il solito discorso!”

“Il solito discorso sì. Io ho dei figli piccoli, ma uno di trent’anni…”

“Ventinove.”

“Non fa differenza.”

“Non ti vorrai mica mettere a discutere qui in mezzo alla strada!”

Elvino. Era Elvino il problema più grave ma, fra tutti, anche il più eliminabile. Quello si era piazzato lì, in casa, e mangiava, mangiava… tutto quanto c’era di commestibile, lui lo mangiava. Ma di lavorare non se ne poteva parlare. Adesso lo avrebbe risolto lui il problema!

“Ascoltami un po’, Elvino, – Berto aveva pescato suo cognato da solo: – ormai sei già un ometto e gli ometti lavorano. Sennò gli ometti si beccano un calcio nel culo e vanno a rompere le scatole da un’altra parte. Hai capito, Elvino, o mi devo spiegare con un esempio?”

Elvino sarà stato tutto quel che si vuole ma era un ragazzo intelligente. “Se solo si applicasse…” diceva sempre la maestra quando andava a scuola. Non c’era bisogno di esempi: Elvino si mise ad uscire tutte le mattine – già alle dieci lo si sarebbe potuto vedere in giro – in cerca di lavoro.

“E’ sfortunato, ti dico!”

“Dai Nerina, macché sfortunato! Vuoi scommettere che se viene al Cantinone…”

“L’ernia…”

Elvino si teneva le mani sulla pancia. L’ernia…

“Ma ve’: basta un tegame di maccheroni e una frittata di quattro uova, e l’ernia passa fino a stasera, fino a cena! Stammi a sentire, signorino, o ti trovi qualcosa da fare che non sia mangiarmi addosso o togli il disturbo!”

Rinunciare a quindicimilanovecentocinquanta lire al mese era una bella botta. E poi, quando sarebbe arrivata la FIAT, ci sarebbe stato il bollo da pagare, poi la benzina… Bisognava cacciare Elvino: non c’era altra soluzione. E c’era anche da dire alla Nerina che aveva comprato una macchina, che aveva cacciato di casa Elvino per comprarsi una macchina. Un bel problema anche quello…

 

Al bar la tensione aumentava. I tre mesi erano passati e ancora… Ma una sera, faceva ancora luce, dalla strada si sentì sbattere una portiera. In un secondo il bar cadde nel silenzio. Nessuno entrava, eppure la portiera… Savorani, che era sordo e non si era accorto di niente, continuava a parlare ma fu zittito da una pacca su un braccio. La Nives rovesciò un caffè. “Madosca,” disse, con l’ultima sillaba appena sussurrata. D’improvviso le frange antimosca si scostarono e lui entrò. Giacca bianca, pantaloni bianchi, cravatta marrone. Le scarpe scricchiolavano mentre si avvicinava al solito tavolo. Babini, che ci si era seduto, si alzò. Lui non lo guardò neppure e si sedette. La Nives scoccò un’occhiata. Lui annuì. Nel silenzio generale si sentì solo il getto di vapore dalla macchina del caffè, e il caffè arrivò con la Nives che lo portava camminando su una nuvola. Lo portò e vi posò vicino tutta la bottiglia di Stock. “E’ ora di andare,” si dicevano piano l’un l’altro gli avventori, guardando l’orologio con la pubblicità del chinotto appeso sopra il bancone; e uscirono tutti, uno a uno, sfilando davanti alla FIAT. Anche Berto dovette uscire. I due restarono soli.

 

“Allora, il lavoro?…”

“Niente, ancora niente…”

“Ma che cosa fa quello lì?”

“Berto, lo sai, ci vuole pazienza. Mio fratello è delicato e…”

“Delicato! Delicato quel signore lì! Non mi far parlare che è meglio!”

“Comunque Amadori ha detto che forse lo prende. L’altro… sai quello che gli aveva rubato il posto…”

“Macché rubato! Elvino non si era neanche fatto vedere! La gente non può mica stare ad aspettare lui! Ah, se non viene il signor Elvino, io chiudo l’officina… Allora?”

“Allora forse quell’altro non va bene, va via e Amadori prende Elvino.”

“Mah… speriamo.”

Berto si svegliò di soprassalto a metà del sonno. Se Elvino fosse andato da Amadori avrebbe saputo della FIAT.

“Ascoltami, Amadori, Elvino è troppo delicato. Il lavoro d’officina non fa per lui.”

“Delicato? Ma se è l’immagine della salute! Bianco e rosso…”

“Fidati, Amadori. Piglia un altro e sarai contento.”

Era un bel pasticcio: senza i soldi della rata tirare avanti era dura e la Nerina non sapeva niente ma si era messa a fare domande. “Ma, insomma, Berto, non è mai successo che lasciamo da pagare in cooperativa per due mesi. Com’è questa storia? Oh, non ci sarà mica una donna di mezzo!” Ormai mancavano sì e no dieci giorni ai tre mesi e alla Nerina bisognava pur dire… Proprio da Amadori doveva trovare posto Elvino!

 

“Ma te lo dico io: li ho visti sulla Seicento!” “Andavano come il vento…” “Li ha visti anche…”

Ormai la situazione stava precipitando. Tutti riportavano avvistamenti di Assirelli e della Nives in macchina. Qualcuno, magari, li aveva persino visti sul serio.

“O Amadori, e la mia FIAT?”

“Arriva, arriva…”

“Te ne ho già pagato un bel pezzo e…”

“Mi hai pagato i parafanghi. Arriva, ti dico.”

E la macchina arrivò per davvero. Berto si prese una giornata di permesso e al Cantinone non furono per niente contenti perché al mercoledì venivano i camion da Bologna.

“Sei fortunato, Berto: tre giorni di pioggia e oggi il sole. Così non sporchi la macchina.”

“Dov’è?”

“Ecco qua: guarda che Seicento!”

“Ma non è azzurra!”

“Beige.”

“Mi avevi detto azzurra.”

“E’ arrivata beige. Se vuoi la mandiamo indietro.”

“No, no, scherzavo.”

“C’è la targa di cartone. La macchina è in rodaggio. Lo sai come si fa il rodaggio?”

“Il rodaggio?… No… Io…”

“Ma sai guidare, vero?”

“Sì, sì. Ho preso la patente quando facevo il militare.”

Con un balzo in avanti la Seicento partì zigzagando. Poi si ordinò a destra e dopo un po’ Berto ingranò la seconda.

Al bar, subito al bar! Sempre in seconda Berto imboccò la strada del bar. Poi… Se al bar avessero visto la macchina la Nerina l’avrebbe saputo subito. Quelli avevano delle boccacce… E allora, che fare?… Del resto, però, la Seicento l’aveva presa proprio per la Nives e dalla Nives non poteva mica non andarci. Che cosa fare, dunque? Oh, insomma, al diavolo la Nerina! Alla Nerina glie l’avrebbe detto, prima o poi, e se fosse venuta a saperlo da qualcuno del bar, tanto peggio!

Si fermò davanti alla porta, esattamente ripetendo l’azione di Assirelli. Entrò scostando con un gesto ampio del braccio le frange antimosca. Nessuno. Lo stanzone era perfettamente deserto.

“Chi è?” era la voce della Nives che veniva dal retrobottega.

“Io!”

“Io, chi?”

“Alberto!”

“Alberto?”

“Berto!”

“Aspetta che finisco una cosa e arrivo!”

Passarono almeno dieci minuti prima che l’acqua del gabinetto scrosciasse e la Nives arrivasse spazzandosi le mani sul grembiule.

“Non c’è nessuno?”

“Al mercoledì mattina, chi vuoi che ci sia? E poi il bar sarebbe chiuso oggi. Lo sai che d’estate facciamo un mercoledì per uno con il bar della chiesa? Te, com’è che sei qui a quest’ora?”

“Ma… passavo e… e mi era venuta sete…”

“Una bella spuma?”

“Una spuma?… Un… uno spumante… beviamo insieme un bicchiere di spumante?”

“Un bicchiere di spumante? Insieme? O Berto, ma che cosa è successo?”

“Ero passato da Amadori e…”

“Ti deve aggiustare il Mosquito?”

“…e c’era per caso pronta la mia macchina…”

“Il Mosquito?”

“… una FIAT…”

“Una FIAT? Ma cosa dici, Berto?”

“E’ lì fuori…”

“Lì fuori?”

“Se vuoi vedere…”

“Dai, Berto, che non ho voglia di scherzare, oggi. Ieri abbiamo fatto il castrato e oggi ho un mal di pancia…”

Berto scostò le frange. La Nives uscì dal bancone. La Seicento era lì, color beige, con la targa di cartone e l’odore della macchina nuova.

“Se vuoi fare un giro…”

“Un giro?”

“Pensavo di andare al mare…”

Berto non si rese conto di come accadde la cosa. Fatto sta che la Nives chiuse bottega, salì davvero in macchina e lo guardò aspettando che partisse. Al mare… E poi? Al mare bisognava andare in trattoria, prendere la cabina… E la benzina? Gli sarebbero bastati i cinque litri che aveva messo? I soldi: quanti soldi aveva in tasca? La Seicento partì con un balzo. Imboccarono la strada del mare.

“Ma va così piano questa FIAT? Quella di Assirelli…”

Quella di Assirelli! Dunque c’era stata davvero con Assirelli! La macchina di Assirelli andava forte. Per forza: quello era uno che in macchina ci andava tutti i giorni. Quello metteva la prima, la seconda, la terza e la quarta. Magari faceva la doppietta quando scalava di marcia.

Berto infilò la terza con un rumore terribile d’ingranaggi.

“C’è pericolo?” fece lei un po’ allarmata.

Per tutta risposta Berto mise la quarta e la macchina si rifiutò di avanzare. Si fermò in mezzo alla strada. Come il Mosquito. Riaccesa la macchina, ripartirono saltando. Prima e seconda. Fino al mare c’era ancora una ventina di chilometri: un’ora tonda. Arrivarono che s’era fatta l’una.

“Andiamo in trattoria,” propose Berto con fare mondano.

Avrà anche avuto mal di pancia, ma la Nives mangiava come Elvino. E si difendeva bene anche con l’Albana. Milleottocento lire. Uno stuzzicadenti in bocca e mileottocento lire di meno in tasca. Però adesso…

La spiaggia era quasi vuota. All’inizio di giugno i signori della città non sono ancora arrivati e gli ombrelloni erano quasi tutti chiusi.

“O Berto, non vorrai mica che mi spogli in mezzo alla gente!”

“No, no, prendiamo una cabina dal bagnino.” Una cabina. Cento lire.

“Ce l’hai il costume?”

“No… io…”

Berto restò a torso nudo, con i pantaloni arrotolati su quasi fino alle ginocchia e con un cappello fatto con un giornale. La Nives uscì in guêpière. La Nives così… ma neanche quando ci pensava sul Mosquito! Si stesero sulla sabbia, ancora umida dai tre giorni di diluvio, e Berto tirò fuori il suo pacchetto di sigarette.

“Vuoi?” fece con noncuranza.

“Che cosa sono?”

“Mi sono preso un pacchetto di Nazionali col filtro…”

“Ho le Lucky Strike.”

“Le Lucky Strike?”

“Me ne ha date un pacchetto Assirelli…”

“Assirelli?…”

“E’ andato a Milano per la ditta e là…”

“A Milano?”

“Eh, sai, lui… A Milano arrivano dalla Svizzera con le sigarette… Se conosci il giro, le compri. Vuoi una Lucky?”

“No!… No, no, grazie, a me piacciono le Nazionali.”

Sdraiàti lì, praticamente da soli, più nudi che vestiti e lei che gli parla di Assirelli, che fuma le sigarette di Assirelli… Eppure quella era l’occasione della vita. La Nerina… Al diavolo la Nerina! Ma come fare? La Nives non gli offriva il minimo spunto e lui, adesso che ci pensava, non aveva la più pallida idea di come comportarsi. Non si era preparato ad un’occasione del genere. In tutte le situazioni che aveva costruito a letto e sul Mosquito, quella lì non c’era. Ma come si fa con le donne? Assirelli… Sì, sì, ancora lui! Assirelli ne faceva collezione, di donne. E anche i suoi compari rappresentanti, compreso quello grasso e pelato di dietro.  E lui era lì, con la Nives mezza nuda e… niente: non gli veniva in mente niente. Il tempo passava. Le ore. Forse la Nives dormiva. Forse no. Stavano in silenzio. Ogni tanto lei dava un piccolo gemito misterioso e si accarezzava in basso la guêpière. Era il tramonto quando la Nives si alzò improvvisamente, con l’aria che sembrava un po’ seccata, e disse: “Andiamo a casa, va.” Berto si rimise in piedi, andarono alla cabina, si rivestirono e risalirono in macchina. Sobbalzando, la Seicento partì. “Che bella giornata!” fece la Nives. A Berto non fu chiara l’intonazione della voce.

Senza avvisaglie, quando furono all’altezza del pioppeto vicino al fiume, lei gli disse. “Fermati lì, più avanti. C’è uno spiazzo piccolo in discesa, dietro la siepe.” Il cuore di Berto sobbalzò come la Seicento. Non era possibile non ubbidire in silenzio: l’ordine non lasciava alternativa. C’era dentro fino al collo. Che cosa sarebbe successo più avanti, nello spiazzo piccolo dietro la siepe? Che cosa avrebbero fatto? Gli mancava il respiro. Entrarono nel pioppeto. “Qui: fermati qui.” La Nives aprì in fretta lo sportello e scese, girando dietro la macchina. “Porco mondo, che fango!” la sentì esclamare. Era quasi buio, ma dallo specchietto retrovisore era facile intuire che cosa stesse facendo lei: stava maneggiando la gonna. Era il momento, il momento atteso da sempre. L’aveva tenuto sulla corda tutto il giorno ma adesso… Bisognava essere pronti e rimanere padroni della situazione. Il cuore picchiava negli orecchi. Berto non vide più la Nives nello specchietto e chiuse gli occhi. “Ormai sei mia, – le avrebbe detto dopo, a cose fatte, a unione consumata: – il destino ci vuole uniti.” E se ne sarebbero andati insieme, a farsi una vita, magari in Svizzera. No, in Svizzera no. Per la storia del giro delle sigarette, la Svizzera… Beh, insomma, da qualche parte sarebbero andati a farsi una vita. Lo aveva voluto lui. Lo aveva voluto lei. Insieme. Quanto tempo passò, Berto non avrebbe potuto dirlo. Sulla polvere del parabrezza si stampavano dei goccioloni enormi e pesanti. Finalmente lei riapparve. “Boia, – disse – ‘sto mal di pancia… Se non mi fermavo…” Berto la guardò senza capire. “La pancia, – chiarì lei: – o mi fermavo o… trac!” Berto guardava la pioggia che scrosciava. La macchina sembrava un tamburo. “Dai, andiamo, che stasera ho un giro!” La Nives aveva un giro. Come le sigarette della Svizzera. “Ti muovi?” Berto accese la macchina e fece per partire. Le ruote mulinavano, e veloci, anche, ma la Seicento non si spostava di un millimetro. “Siamo impantanati,” disse la Nives, e aggiunse: “Sei proprio un patacca,” anche se il pantano non l’aveva mica fatto lui. E adesso? “Lascia la macchina accesa. Scendi a spingere, io metto la marcia e appena siamo fuori mi fermo.” La Nives sapeva guidare. Berto scese e andò dietro la Seicento. “Boia, – gli scappò – la Nives stava male davvero…” e si guardò sotto una scarpa. Pioveva forte. “Dai, metti la marcia!” Berto si appoggiò alla macchina e spinse forte. Le ruote girarono velocissime, sibilando, e coprirono Berto di fango. “Spingi!” Passò un attimo e la Seicento, uscendo di colpo dalla buca, saltò in avanti sulla discesa: dieci metri, poi lo schianto. La Nives uscì. “L’avevo detto che sei un patacca: ma cosa spingi?” Il cofano era accartocciato contro un pioppo. Cercarono insieme di spostare indietro la Seicento, ma quella non si muoveva. La Nives si rimise al volante e, innestata la retromarcia, gridò: “Spingi, adesso!” Berto spinse e la macchina si staccò dall’albero. “Ferma, adesso!” urlò Berto. La macchina si fermò d’improvviso e rotolò, in discesa, contro Berto che non fece in tempo a spostarsi e cascò nel fango. “Ti sei fatto male?” La Nives gli tirò su un pantalone e fece schioccare la lingua. “Si è rotta in mezzo,” sentenziò, e, a dire il vero con rassegnazione, snocciolò una fila d’imprecazioni non prive di fantasia. Senza dir niente s’incamminò. “Dove vai? Nives!” Ma lei si allontanava senza voltarsi. Lì, da solo, ormai di notte, nel fango, alla pioggia, con una gamba rotta e con la macchina che non aveva ancora osato guardare. Passò chissà quanto tempo. “Nives…” piagnucolava ogni tanto. Guardò l’orologio fosforescente: le nove e un quarto. Che cosa avrebbe raccontato alla Nerina? E la macchina? Fracassata. E quasi tutta da pagare. Ma perché la Nives l’aveva lasciato da solo? Le nove e ventitre. La Nerina lo stava cercando di sicuro. Magari aveva chiamato i Carabinieri e… E se lo avessero trovato lì, messo così, che cosa avrebbe raccontato? La gamba! Che male fa la gamba!…. Le nove e trentuno. Bisogna andare da Amadori… Subito, subito. “Dai, Amadori, prendimela indietro…” Le nove e trentaquattro. Se passo questa, poi metto la testa a partito… Le nove e trentasei. La pioggia non voleva saperne di smettere. Restare lì fino a che non lo avessero trovato… Le nove e quarantuno. Un rumore… Qualcuno parlava! Qualcuno camminava lontano! “Aiuto!” la voce non gli usciva quasi. “Aiuto!” Meglio. “Aiuto!” “Piantala, Berto!” La Nives! “Nives!” Erano in due, anzi, in tre: lei e un tale che si tirava dietro un bue. Dandosi ordini brevi e secchi, la Nives e l’altro si chinarono sotto la macchina, la legarono al bue e la bestia, lentamente, tirò. “Fanno mille per la bestia e duecento per la pioggia,” fece l’uomo. Berto pensò per un attimo di far finta di non capire, ma poi, in quelle condizioni… La Nives, fradicia, salì al posto di guida e Berto, nero di fango, fu accomodato di fianco. Partirono. La Nives guidava peggio di lui: tutta in prima fino davanti a casa. “Ciao, Berto. Grazie per la bella giornata.” E adesso?… “Nerina!… Nerina!” Ma la Nerina non poteva sentire. La gamba! Che male fa la gamba!…

“E’ qui, maresciallo!” Berto si era assopito e fu svegliato di soprassalto. Con la faccia contro il finestrino, un carabiniere lo guardava. “Signora, è qui, sotto casa.” La Nerina non credeva ai suoi occhi. “La gamba…” Berto chiuse gli occhi e scivolò quasi sul pavimento della macchina. Un po’ la gamba gli faceva male sul serio e un po’… I carabinieri lo portarono all’ospedale di Forlì e lo lasciarono al posto di pronto soccorso, sdraiato su una barella. “Adesso mi racconti tutto.” La Nerina era un po’ di ghiaccio e un po’ di fuoco. Berto ebbe la visione di tutto ciò che poteva raccontare, dalla rapina subita ai dischi volanti, ma la faccia della Nerina non lasciava scampo. A metà del racconto, una confessione appena appena un po’ aggiustata, lei gli disse “Aspetta un attimo” e gli sbatté la borsetta – per andare a Forlì aveva tirato fuori la borsetta – gli sbatté la borsetta sulla testa. “Vai avanti!” gl’ingiunse. E giù borsettate, finché, attirato dal trambusto, non arrivò un infermiere. “Ma cosa fa? – gridò, – se ce lo rompe ancora di più…” Tornarono a casa con una vettura di piazza. La giornata più costosa di una vita.

 

Al Cantinone non ci poteva andare con la gamba ingessata e doveva restare tutto il giorno a casa. Al bar avrebbe anche potuto trascinarcisi, ma con che faccia? Dal bar gli erano arrivate delle voci… Alla sera i bambini si mettevano sotto la sua finestra e gridavano “Nuvolari!” finché la Nerina non tirava una catinella d’acqua. Così Berto passava la giornata in cucina. Elvino lo guardava senza parlare.

“Ascoltami bene, – sbottò un giorno Berto mentre Elvino, in canottiera e retina per capelli, faceva colazione inzuppando il pane vecchio nel latte – a te non te ne deve fregare niente di come spendo io i soldi o di come li ho spesi io. A te ti deve interessare che qui di soldi non ce n’è più e tu sei di troppo. Eri già di troppo anche ieri, e anche l’anno scorso… e anche cinque anni fa, se è per questo. Ma adesso…”

Elvino mangiava, chino sulla tazza, tenendo gli occhi puntati su Berto.

 

Lo venne a trovare Amadori.

“O Berto, devi decidere che cosa fare con la macchina. Io non te la posso mica tenere, fracassata così, per sempre in officina. Non ho neanche posto, lo sai. O la fai riparare o…”

“O…”

“La fai riparare.”

“Ma con che soldi?”

“Non vorrai mica che ti dia anche i soldi? Io, al massimo, te l’aggiusto.”

“Senti, Amadori, sono stato un patacca, lo so e non c’è bisogno che me lo dica anche tu. Del resto, per vedere che patacca che sono, basta guardare Elvino, qui… – Elvino bloccò a mezz’aria il crostino di pane e s’inchinò leggermente – me lo tengo in casa e se non sto attento mi mangia anche i bambini.”

“Ti avevo detto di mandarmelo…”

“Sì, sì, Amadori: sono un patacca. Vuoi che te lo scriva? Ma adesso la cosa è fatta e bisogna rimediare. Dai, Amadori, prendimi indietro la Seicento!”

“Ma tu sei matto!”

“Ci rimetto quel che c’è da rimetterci.”

“Chi vuoi che la compri una Seicento, anche a metà prezzo? Chi ce l’ha la macchina qui? I carabinieri, il dottore, Assirelli e te. E te, hai capito? Neanche il farmacista. Te. Solo un patacca può comprare una macchina, e qui di patacca ci sei solo…”

“Sì, ho capito Non c’era bisogno…”

Elvino annuiva pensoso.

 

Domenica pomeriggio: il momento peggiore. Tutta la famiglia in casa.

“Ma perché non andate fuori e mi lasciate sentire la partita in pace? Ve’ che sole che c’è.!”

Era l’ultima di campionato. La Fiorentina stava vincendo lo scudetto. A Berto non importava: lui era per la Juve. Si appisolò con la radio accesa. La Nives…

Si svegliò d’improvviso ma non aprì gli occhi. La Nerina gridava. Non poteva avere scoperto niente di nuovo: della macchina sapeva tutto. Qualche particolare della giornata fatale… qualcosa della Nives, forse… Ma non c’era poi gran che d’altro. Peggio di così… La Nerina gridava. “Elvino!” gridava. Non sarà mica capitato qualcosa di brutto a Elvino?… Impossibile: a lui non glie ne andava dritta una. Eppure “Elvino!” continuava a gridare la Nerina.

“Che cosa c’è?” si decise a domandare Berto.

“Elvino ha fatto tredici!”

“Tredici cosa?”

“Ha fatto tredici alla Sisal!”

“Dai, Nerina, che non ho voglia di…”

“Ha fatto tredici, ti dico! Guarda qua!” E gli sventolò sul naso il tagliando di una schedina.

“Fa vedere…” Ma Berto aveva dormito e non aveva sentito i risultati.

“Sono tutti giusti!” gridava la Nerina.

Elvino, con il mento sbrodolato da una pesca, annuiva.

A cena la Nerina si mangiava con gli occhi Elvino che, invece, si faceva fuori mezzo tegame di strozzapreti. “Lui…” diceva la Nerina fissando Berto e indicando con lo sguardo Elvino.

“Adesso puoi ringraziare mio fratello,” disse la Nerina a letto.

Tredici alla Sisal… Quanti soldi saranno? Magari hanno fatto tredici in mille e si prendono cinquemila lire…

Appena fu giorno la Nerina uscì a comprare il giornale. “Sette milioni! – urlava dalle scale – Elvino ha vinto sette milioni!”

Le porte dei pianerottoli si aprirono una ad una. “Che cosa?” “Elvino?” “Elvino ha fatto tredici!” “Sette milioni?” In un attimo la tromba delle scale si riempì e la gente cominciò a salire, vociando.

“Oh, ma cosa volete? – urlava Berto ancora in mutande e canottiera, reggendosi sulla gamba non ingessata. – Ma quale tredici!… Qui non ha vinto nessuno!”

“Elvino ha vinto alla Sisal!” “Un pacco di soldi!” “Chi?” “E’ stato Elvino…”

Come dio volle, la Nerina riuscì ad entrare e Berto a chiudere fuori i coinquilini.

“Adesso bisogna andare in banca.”

“In banca, a fare che?”

“Diamo la schedina in banca e ci pensano loro.”

“In banca dove?”

“A Forlì, per forza. Sette milioni…”

“E come ci andiamo? Il Mosquito l’hai dato via, e la macchina…”

“Ci facciamo prestare due biciclette e…”

“Con la gamba…”

“In treno.”

“Prendiamo un taxi.”

“Un taxi?”

“Andiamo al bar e telefoniamo che ci vengano a prendere con un taxi.”

“Oh, ma Nerina!…”

“Con sette milioni…”

Come fare ad andare al bar? Farsi vedere là… E anche mandare la Nerina dalla Nives… Decisero che sarebbe andato Elvino..

“To’ venti lire: comprati una pasta e telefona al taxi. Chiedi alla Nives come si fa e non ti sbagliare.”

 

Berto, seduto di fianco all’autista, non ne perdeva una mossa: su l’acceleratore e, contemporaneamente, giù la frizione. Un attimo e, trac!, dentro la marcia giusta. Su la frizione e giù l’acceleratore. Liscio. Senza sobbalzi.

“Con tutti ‘sti soldi…” La Nerina non la smetteva di parlare. Elvino controllava le ditate che lasciava sul finestrino e si faceva fuori un bel pezzo di pane con dentro uno sgombro.

“Avete vinto davvero alla Sisal?” fece alla fine l’autista.

“Noi? … no, no,” disse forte Berto.

“Abbiamo vinto eccome! Sette milioni abbiamo vinto!” La Nerina non ce la faceva proprio a tenere quella bocca chiusa.

“Sette milioni?”

“Lui, mio fratello, questo qui, con una schedina di due colonne. Ce l’ho qui nella borsa, la schedina, e andiamo in banca, che si fa così in queste occasioni.”

“Ma fatemela vedere, ‘sta schedina!”

“Qua, guardate che roba. Un pezzettino di carta: sette milioni!” La Nerina mise la schedina davanti agli occhi dell’autista.

“Basta, Nerina, che c’è pericolo! – sbottò Berto – Facciamo i sessanta. E’ vero che facciamo i sessanta?”

“Quasi.”

Arrivarono a Forlì e si fermarono davanti alla banca.

“Fanno mille.”

“Mille lire?”

“Mille lire: sì.”

“Brava! – disse Berto appena il taxi se ne fu andato. – A sentire tutte le tue storie dei sette milioni quello lì ci ha preso mille lire.”

Non fu facile convincere l’impiegato che quei tre volevano parlare proprio con il direttore, con il ragionier Errani, ma alla fine riuscirono a sedersi davanti alla scrivania. Il direttore li guardava severo, sopra e attraverso le lenti che teneva appoggiate sulla punta del naso.

“Desiderano?”

“Noi…” Berto e la Nerina attaccarono insieme e si bloccarono altrettanto insieme.

“Desiderano?” ripeté il direttore, tradendo una lievissima impazienza.

“Noi… – Berto disse tenendo a bada la Nerina con lo sguardo – noi avremmo qui… Guardi!” La Nerina, che non aspettava altro, tirò fuori dalla borsa la schedina. Elvino si sporse incuriosito a guardarla.

“Bene… – disse il direttore dopo averla presa appena per un angolo tra le punte del pollice e dell’indice e averla lasciata subito cadere sulla scrivania – e con questa?…”

“Con questa?”

“Sì, dico, che cosa ci facciamo?”

“Ma vale sette milioni!”

Il direttore suonò il campanello che aveva sul tavolo. Un attimo dopo entrò un impiegato che accennò un inchino e guardò i tre ospiti.

“Ho bisogno del giornale,” e l’impiegato uscì, rientrando dopo un momento con il Carlino su un vassoio.

Il direttore andò alla pagina giusta, poi scórse la colonna vincente della Sisal, seguendo con l’indice i segni sulla schedina e confrontando.

“Giusto… Tutti i segni giusti: è un tredici.”

 

“Signor Baldrati. Hai visto Errani? Hai visto come chiamava Elvino?: signor Baldrati.”

Elvino guardava la sorella, poi il cognato, e annuiva.

“Beh, adesso la FIAT la possiamo anche fare aggiustare…” disse Berto.

“Bisognerà chiedere a Elvino. La schedina l’ha fatta lui. O no?”

Elvino fece di sì con la testa.

Da Amadori ci andò la Nerina, perché Berto, con quella gambona, non ce la faceva a muoversi troppo.

“Aggiusta, aggiusta. Paga Elvino.”

“Ci vorranno cinquantantamila lire. Sei sicura che…”

“Sicura? Te telefoni alla Cassa di Risparmio, quella di Forlì, chiedi di Errani, il direttore, uno che noi lo conosciamo bene, e gli dici che fai un lavoro per il signor Baldrati…”

“Baldrati?”

“Elvino.”

“Un lavoro per il signor Baldrati… Lo chiedo al direttore…. Sì, però diecimila ci vogliono subito.”

“Diecimila lire? Subito? E perché?”

“O Nerina, la roba la devo andare a comprare. E io non sono mica uno che conosce Errani. Da me i soldi li vogliono.”

“Diecimila… “

La Nerina tornò a casa e spiegò la vicenda.

“L’hai sentito: Errani ha detto che ci vorrà un mesetto, un mesetto e mezzo per avere i soldi,” disse Berto.

“E intanto… Come si fa?”

“Intanto… Un po’ si lascia da pagare… Un po’ si possono chiedere dei soldi in prestito…”

“In prestito a chi?”

“Beh, lo sanno tutti della Sisal…”

Così, un po’ dagli amici, un po’ dal farmacista, qualcosa perfino dalla banca, i vari prestiti arrivarono a centoventimila lire.

 

A ingessatura tolta, Berto tornò al Cantinone, stavolta, però, a bordo della Seicento.

La macchina si fermò, o, meglio, si spense spontaneamente, al centro dello spiazzo che di solito era tutto contornato di biciclette. Berto aveva fatto in modo di arrivare un quarto d’ora prima dell’orario. A uno a uno arrivarono tutti, sfilando davanti alla vettura. Berto teneva lo sportello aperto, una gamba fuori, e illustrava le particolarità della macchina ai compagni che vi andavano facendo capannello intorno.

“Questa cosa qui della cilindrata l’ho già detta a Pirè.”

“Dai, dimmela anche a me.”

“E’ una Seicento, – sospirò Berto, mostrando tutta la sua pazienza: – Seicento vuol dire seicento di cilindrata.”

“Ma seicento cosa?”

“Centimetri.”

“Centimetri… Sarebbero sei metri.”

“Sei metri, sì.”

“E dove sono i sei metri?”

“Tutti dentro il motore.”

“Ah…”

“A dir la verità sarebbe seicentotrentatre, ma noi diciamo seicento, così, per fare prima…”

“Ah, sì, sì…così si fa prima… E i cavalli?”

“Ventuno e mezzo.”

“Ventuno e mezzo?” Era arrivata la Desolina, che era un po’ stupida.

“Ventuno e mezzo.”

“Pazienza i ventuno, che uno non sa come facciano a stare in un macchinino così piccolo, ma mezzo cavallo…”

“Dai, Desolina, va dentro a lavorare!”

“O ragazzi, fate festa?” Minguzzi, il padrone del Cantinone era arrivato a cavallo del Galletto. La storia che Berto avesse comprato una macchina non gli era piaciuta neanche un po’. Vederlo, poi, con tutti gli altri intorno… E lì con gli altri c’era anche la Maurizia…“Tutti dentro! Anche te, Berto, dentro che c’è da caricare!”

La gamba faceva ancora un po’ male. Minguzzi passava di continuo davanti a Berto e lo squadrava feroce. Se avesse saputo della Sisal…

All’uscita tutti si misero ancora intorno alla Seicento e per almeno mezz’ora Berto non riuscì a partire. Finalmente, dopo aver distribuito varie promesse che un giretto l’avrebbe fatto fare a questo e a quello, riuscì a prendere la strada verso casa. Un paio di curve, non di più, e avvistò la Maurizia che camminava lungo il fosso, voltata indietro, verso di lui che arrivava, e gli sorrideva. La Maurizia gli sorrideva… la Maurizia che parlava solo con Minguzzi… E chi ci credeva che con Minguzzi parlava e basta? Berto si avvicinava e lei gli sorrideva, bionda come un’attrice americana. Berto si avvicinava… si avvicinava… Non se ne accorse nemmeno e si fermò.

“Vai a casa?”

“Sì.”

“A piedi?”

“Nessuno mi accompagna…”

“Se vuoi…”

Quando la Maurizia salì, le si scoprì una gamba fino al reggicalze. Una roba…

“Dove abiti?”

“A Santa Vereconda.”

“E ci vai a piedi?”

“Nessuno mi accompagna…”

Le gomme slittarono sulla strada polverosa. Berto mise la seconda… la terza… la quarta… Non c’era verso: in quarta quella macchina maledetta non ne voleva proprio sapere di andare.

“Vuoi fermarti qui?” fece la Maurizia con una vocetta da gattina.

A Berto non riuscì di avere nessuna reazione, perché la Maurizia aggiunse subito: “Se vai un po’ più avanti, c’è un pioppeto…”

Eh, no… un pioppeto no!

Berto riaccese il motore e ripartì. Subito, improvvisamente, la Maurizia gli prese il collo e gli tirò la testa tra un paio di mammelle che toglievano il fiato in ogni senso. Fu questione di un attimo e per qualche secondo non si capì più nulla. Uscirono strisciando tutti e due dalla Seicento che stava a ruote per aria nel prato sotto la strada.

Stavolta la Nerina gli spaccò in testa il cavallino di cristallo di Murano che era stato il regalo di nozze della zia di Bagnacavallo. Ma stavolta erano ricchi…

 

“No, no: adesso a lavorare ci vai a piedi!”

“A piedi…”

“A piedi! Se non ti veniva in mente ‘sta pataccata della FIAT… Adesso sei anche senza il Mosquito! A piedi!”

Per il momento era meglio non contrariare la Nerina. Così, tutte le mattine, Berto il milionario, con la sua garza sulla testa dove la Nerina aveva picchiato, andava al Cantinone a piedi. Un’ora e passa di strada. Uguale la sera.

 

“Ma insomma, e questi sette milioni?”

La Nerina guardava Berto. Berto allargava le braccia. Elvino mandava giù quel che aveva in bocca. I bambini rovesciavano di volta in volta la credenza, le seggiole o qualsiasi altro pezzo di mobilio si lasciasse rovesciare.

“Eh, sì: se i sette milioni tardano, – continuò la Nerina – bisognerà prendere degli altri soldi in prestito. Amadori ha voluto le cinquantamila lire. Quelle della Nives. Adesso bisognerà pagargli quelle della Maurizia… Se il signor Patacca Valentino, qui, non sta un po’ tranquillo, i sette milioni…”

In effetti il mese e mezzo era passato e dalla banca non arrivavano notizie. Decisero di tornare a Forlì.

“Mi dispiace, signori, – disse il ragionier Errani – ma da Roma mi è giunta da qualche giorno la comunicazione secondo cui occorrono indagini.”

“Indagini?” La Nerina e Berto si guardarono. Guardò anche Elvino.

“Parrebbe di sì.”

“Indagini, quali?”

“Parrebbe che la schedina abbia qualche irregolarità.”

“Irregolarità? Oh, ma la schedina l’ha fatta mio fratello qui, il signor Baldrati! E’ vero che l’hai fatta te?”

Elvino confermò annuendo vigorosamente.

“Comunque, – riprese il direttore – se è tutto regolare non c’è di che preoccuparsi: sarà questione di qualche giorno. Del resto la vincita è cospicua e a Roma vorranno essere proprio sicuri.”

 

Tra una spesa e l’altra, le centoventimila lire del prestito erano lì lì per finire e metà del salario se ne andava per la cambiale. Dalla banca tutto taceva e ormai si era a settembre.

“Vieni un po’ qua, Elvino.”

Elvino chiuse in fretta lo sportello della dispensa e fece un passo verso la Nerina.

“Sei sicuro che hai fatto tredici?”

Elvino sgranò gli occhi e alzò le spalle.

Proprio in quel momento suonò il campanello: il postino con un telegramma. “Prego presentarsi urgenza Cassa Risparmio Forlì. Ragionier Errani.”

“I soldi! Sono arrivati i soldi!” La Nerina prese Elvino tra le braccia e lo baciò sulla guancia bitorzoluta per un crostino di pane.

Non si poteva certo aspettare che Berto tornasse dal Cantinone. Bisognava correre a Forlì. Un taxi.

“Non ce la fate ad andare un po’ più forte? Noi abbiamo una Seicento che fa più degli ottanta…”

“E allora andate con la Seicento! A me i cinquanta mi bastano.”

Arrivarono alla banca. La Nerina spinse Elvino dentro la porta del direttore, incurante degl’impiegati che cercavano di fermarli.

“I soldi!”

“Signora…” Il ragionier Errani alzò gli occhi da un fascio di carte.

“I soldi! Era ora!”

“Signora, la prego, si…”

“Ci sono tutti?”

“Si siedano, prego.” Una sfinge.

“Oh, ma non ci saranno mica delle storie?”

Il direttore scelse con cura alcuni fogli, scartandone altri, e li ordinò meticolosamente. Un tempo interminabile. Si aggiustò gli occhiali sul naso, guardò la Nerina, poi Elvino e “Signori, – disse con voce gelida – temo che il nostro ufficio legale dovrà occuparsi della cosa.”

La Nerina guardò Elvino. Elvino guardava fisso un fermacarte di vetro.

“Come certamente loro sanno, – continuò il ragionier Errani – la schedina è falsa e, anzi, è stata falsificata, almeno stando al rapporto che mi è stato consegnato, in modo piuttosto rozzo. Credo che loro dovranno rispondere di qualche reato… Comunque la denuncia è stata inoltrata e farà il suo corso.”

 

Erano le tre del mattino.

“Per me quello lì è matto,” ripeté forse per la millesima volta Berto, la voce stremata, arrochita dall’ora e dall’emozione.

“Te l’ho detto: lui credeva che bastasse copiare i risultati…”

“Ma basta, Nerina, con questa storia! E allora perché ha staccato il bollino dall’altra schedina e l’ha attaccata a quella fasulla? E’ matto, ti dico!”

Elvino annuì.

“Comunque, – continuò Berto con la voce strozzata – matto o no ci ha ficcato in un bel guaio. Ci mancavano gli avvocati… Beh, adesso ce li abbiamo!”

“Adesso…”

“Adesso siamo rovinati. Grazie, signor Baldrati!”

Elvino aprì le braccia e s’inchinò appena, con modestia.

“Se al Cantinone prendessero anche me…” azzardò la Nerina.

“In tutti i modi questo signore fa fagotto, – sibilò Berto – e anche subito!”

“Ma dove lo mandiamo?”

“Dalla Tilde! Dopo tutto una sorella ce l’avete. A tenersi il fratello matto si fanno i turni: dieci anni per uno!”

“Dalla Tilde? Ma la Tilde, poveretta…”

“La Tilde poveretta? Poveretto Berto! Poveretto me!”

“La Tilde è sfortunata…”

“Io! Io sono sfortunato!”

“Ma suo marito…”

“Suo marito… Suo marito! Così quando esce di galera si trova la sorpresa!”

Berto fu irremovibile. Prese lui stesso un lenzuolo rappezzato e lo riempì delle cose di Elvino. “Tutta roba mia! Tutta roba comprata con i soldi miei! – continuava a ruggire mentre raccattava mutande e camicie. – La retina… E guarda qui dov’erano finite le mie ciabatte!” Caricarono tutto sulla Seicento – “Che almeno serva a qualcosa!”- e a strappi e zigzag arrivarono alla stazione.

“Addio Elvino, – piangeva la Nerina – ricordati di scendere a Godo. Godo, hai capito?”

Elvino arrivò a Godo che era quasi sera. Per arrivare dalla Tilde c’era un po’ di strada da fare, lui dalla Tilde c’era già stato e lo sapeva come ci si arrivava. Il fagotto pesava. Si fermò davanti al bar. C’era tutta la gente che guardava i risultati del calcio scritti sulla lavagna fuori della porta. “Neanche stavolta!” “Io ho fatto sei…” “Io ho sbagliato la Fiorentina, la Juve, l’Inter…”

Elvino tirò fuori la sua schedina. X, X, 1… proprio come quelli della lavagna: li aveva beccati tutti.

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mattia.design
8 anni fa

CONTATTIBuongiorno, sarebbe possibile avere una sua email per contattarla riguardo l’intervista radiofonica recentemente fatta? Il vostro blog ha la sezione SCRIVICI fuori uso. Grazie, non la tedio per consigli sui vaccini. RISPOSTA La mia mail è [email protected] Non so a quale intervista si riferisca. Purtroppo io sono subissato di richieste d’interviste (l’ultima alla BBC che hya scandalizzato l’intervistatore e, dunque, sarà censurata senza pietà)e poi solo una piccola frazione di quelle viene trasmessa, spesso con tagli che le rendono più o meno volutamente incomprensibili. Spero che lei non voglia sapere se deve vaccinare il canarino o il pesce rosso perché… Leggi il resto »

Marco L
8 anni fa

Miscela LeoneRacconto go-di-bi-lis-si-mo !!! Complimenti! Quanto alla Miscela Leone faccio in tempo a ricordarmela in quanto i miei avevano una “posteria”, e forse ho anche la scatola di latta serigrafata che ne conteneva una dozzina di pacchetti! RISPOSTA Questo è il commento che mi ha dato maggior soddisfazione almeno da 10 anni a questa parte. Quando avrò definitivamente perso ogni speranza di salvare il mondo, e ormai ci siamo quasi, con i professorini evirati che senza più contrastisplenderanno di luce nera, avrò di che passare il tempo scrivendo di nostalgie proprio come la Miscela Leone e forse un lettore lo… Leggi il resto »

Barbara
8 anni fa

ComplimentiComplimenti…come sempre.Non serve lo dica io ma ha proprio talento.Peccato lorisognori abbiano smorzato l’altro suo talento…..Villani.Voto Montanari ministro della salute e scrittore dell’anno.Un caro saluto a lei e consorte RISPOSTA Alle elezioni del 2008 lo 0,3% dell’elettorato votò per me. Dunque, il 99,7% degl’italiani di me non sa che farsene.Mio padre voleva che io facessi il farmacista. Io volevo fare lo scrittore. Un destino rio e baro ha voluto altrimenti. Ma, se disgraziatamente m’incarnassi di nuovo dopo aver salutato senza nostalgia questo assaggio d’inferno, prego la sorte di lasciarmi fare il farmacista e lo scrittore. Se, poi, la sorte mi… Leggi il resto »

gelu
8 anni fa

Tredici
Bellissimo! Una lettura che ti porta….via!

RISPOSTA

E’ meglio che i miei racconti le piacciano perché d’ora in poi questo sito diventerà sempre di più un salottino per bene e, dunque, di racconti miei ne continuerò a pubblicare. Magari, visto che morire a scopo di lucro altrui resta indifferente ai più, qualcuno mi preferirà come scrittore.

parideparis
8 anni fa

complimentiMi piace molto il finale in sospeso, che lascia correre la fantasia del lettore. Mi piace inoltre l’ironia che pervade il racconto e l’atmosfera di un tempo perduto e meraviglioso nella sua ingenuità. Bello davvero!Scrittore o ricercatore, quello che fa le viene sempre bene. RISPOSTA Per capire del tutto il racconto occorrerebbe aver vissuto gli Anni Cinquanta ed avere familiarità con la Romagna, i romagnoli e il loro linguaggio. Comunque, grazie per i complimenti, ma temo che le cose non stiano proprio così. Come ricercatore sono un pugno di sabbia negli occhi di chi conta e come scrittore non riscuoto… Leggi il resto »

Nivel Egidio Ruini
8 anni fa

Mitica 600Caro dott. Montanari,non mi capitava da tempo di sorridere così di gusto come nel leggere il suo esilarante racconto. Poi quelle “cambiali” prorompente motore di quello che fu il nosrro miracolo economico. Un Paese che usciva dalla guerra, povero di materie prime, ma laborioso, ricco d’idee e d’ingegno che guardava con fiducia al futuro. Un futuro che poi ci siamo lasciati colpevolmente sottrarre e oggi, ormai, completamente svanito. Ma questo è un discorso lungo… RISPOSTA In quegli anni, come accade con un febbrone da cavalli, finita la guerra ci eravamo lasciati alle spalle la malattia del passato e tutto… Leggi il resto »