Pubblicata in un blog perugino c’è una serie di esternazioni di un giovane dipendente di un’azienda che tratta centrali a biomasse. Come sempre accade in circostanze analoghe, il dipendente, della cui buona fede non dubito, è stato opportunamente addestrato in modo da non chiudere il cerchio del suo ragionamento. Malauguratamente, soprattutto quando ci sono forti interessi economici in ballo, chi ha interesse a farlo offre una rappresentazione parziale dei fatti, mettendone in luce alcuni aspetti e trascurandone altri. Ora, non è raro che questi aspetti tenuti da parte siano di estrema importanza. Se vogliamo dare un’occhiata all’energia che l’uomo usa, e in parte preponderante spreca, non c’è massa vegetale capace di fornirne una frazione ragionevole. Ma questo, lasciando da parte la resa energetica di fatto veramente irrisoria, non sarebbe poi tanto grave, se esistessero le possibilità pratiche per ottenere queste masse. Le cose, però, non stanno così. Se si dà un’occhiata alla situazione
dell’Emilia Romagna, dove c’è il progetto di erigere qualche centrale del genere, i calcoli del prof. Tamino (Università di Padova) indicano che per farle funzionare occorrerebbe mettere a coltura dedicata un territorio ben più che doppio rispetto a quello dell’intera regione e quelle colture, peraltro campate in aria se non altro per carenza di metri quadrati, riguarderebbero un tipo di canna infestante che i contadini locali hanno impiegato un secolo a debellare. Dunque, nel caso, si ricorrerà ad importazioni dall’estremo oriente con l’inquinamento che conseguirà sia da tutte le fasi del trasporto, sia dai concimi chimici sia dai pesticidi che ci arriveranno insieme con i vegetali da quei paesi. È poi ovvio che non si possono mettere a coltura dedicata territori enormi, perché di vegetali per altri scopi abbiamo comunque bisogno. Ciò che accadrà inevitabilmente, e la profezia è fin troppo facile, sarà che qualche legislatore, legalmente ma illegittimamente, tramuterà ogni sorta di rifiuti in biomasse con buona pace di tutti. Un déjà vu.E tuttavia non è questo l’aspetto fondamentale, almeno a parer mio, della questione. Che lo vogliamo o no, l’uomo è l’unico animale inquinante che viva su questo pianeta e, sempre che lo vogliamo o no, ha cominciato ad uscire dall’equilibrio naturale nel momento in cui ha imparato ad accendere il fuoco. A questo punto, so bene che qualcuno comincerà a strillare accusandomi di auspicare un ritorno alla più pura animalità, ma io parlo da un punto di vista esclusivamente scientifico e il resto m’interessa solo come folclore. Bene, occorre sapere che ogni combustione produce inquinanti. E tanti. Per chi vuole informazioni, il Politecnico di Zurigo organizza ogni anno un congresso di livello mondiale sull’argomento, ma basta una normale laurea in chimica o anche solo un diploma per saperlo. Così, non bisogna illudersi: i vegetali bruciati inquinano eccome. Quando si entra nell’argomento biomasse, a riprova degli aspetti su cui si preferisce glissare, si dice che, bruciando, una pianta produce tanta anidride carbonica quanta ne produrrebbe comunque con il suo solo esistere. D’accordo. Però il problema non sta lì. Intanto bisogna sapere che ogni volta che si brucia qualcosa di organico in presenza di cloro, un elemento pressoché ubiquo, si produce la più insidiosa delle diossine, quella con quattro atomi di cloro nella molecola. Ma oltre alla diossina, la temperatura e l’ossidazione di una miriade di sostanze solo parzialmente conosciute costruiscono tutta una serie lunghissima d’inquinanti. Tanto per fare un esempio che credo sia di facile comprensione, è noto come il tabacco (una solanacea come la patata) contenga quasi 4.000 sostanze di cui si ha contezza, e di queste qualche centinaio sicuramente tossiche. Non esiste nessun motivo scientifico che possa escludere presenze analoghe in ciò che si brucia promuovendolo come innocuo. Il tabacco stesso, comunque, con i propri scarti di lavorazione rientra nella classificazione di biomassa. Poi, restando nel mio campo, si producono quantità rilevanti di micro e nanoparticelle inorganiche che originano dal contenuto appunto inorganico della pianta stessa, un contenuto tutt’altro che irrilevante e fortissimamente dipendente dal terreno in cui la pianta è cresciuta. Va, poi, tenuto conto del fatto che anche i vegetali cosiddetti vergini subiscono l’inquinamento superficiale di ciò che sta più o meno sospeso nell’atmosfera “normale”, e questo passa di conseguenza nella combustione in maniera più o meno trasformata. Di quel particolato (non commento l’ovvia ingenuità dell’autore delle esternazioni che crede che questo particolato possa essere “abbattuto”) non si è tenuto conto nel ragionamento fatto e questo è ormai in contrasto stridente con la scienza medica moderna. Al proposito esiste un’amplissima letteratura e la Comunità Europea, tra le altre istituzioni, vi dedica parecchie risorse. Si tenga presente, in aggiunta, che la stessa Comunità Europea ha da tempo recepito il cosiddetto principio di precauzione e, se non vogliamo essere i soliti arroganti fuorilegge, dobbiamo dimostrare che ciò che esce da questi impianti non fa male. In mancanza di una dimostrazione, niente centrali. È la legge. L’energia, allora? Sì, è vero: oggi il fotovoltaico è arretrato. A questo punto, bisogna ancora una volta tener conto di un fatto fisico inoppugnabile. Quando si vuole attribuire energia ad un sistema, l’energia va presa da fuori, a pena di restare per forza di cose a secco. Il sole è, che lo si voglia o no, in pratica l’unica fonte d’energia esterna di cui disponiamo e di energia ce ne dà a iosa, più o meno due cavalli vapore per metro quadro di pianeta ogni secondo, cioè intorno ad un miliardo di volte più di quanta ne usiamo e ne sprechiamo noi. Dunque, invece di andare a caccia di farfalle e d’imbarcarci in imprese improbabili e deleterie se non altro dal punto di vista della salute, è meglio che ci rimbocchiamo le maniche, indirizziamo la ricerca in una direzione utile a tutti e non fatta per circoli sulla cui onestà non giocherei un centesimo, e cerchiamo di acchiappare quel miliardesimo del tesoro che ci serve.