Non ci resta che rifugiarci nel passato. Quello, almeno, è già stato vissuto e, qualunque cosa accada, come dice il participio passato sostantivato che lo sostantiva, non torna più.
Mi prendo un attimo di tregua dalle stramberie ingenue e furbesche ad un tempo del’ineffabile professor
Burioni arrivato fino all’Università di Modena (chi ne ha voglia, giusto per rendersi conto del personaggio, legga http://www.dissensomedico.it/files/Burioni-opinioni-introd-puntate1-3-i.pdf e le puntate seguenti) e pubblico un mio vecchio racconto. E un po’ di tregua la prendo dai giornalisti non accusabili di malafede in ragione della loro infinita ignoranza che in qualche modo li scagiona con uno scappellotto per non aver compreso i fatti. Al massimo si potrebbe avanzare qualche accusa di presunzione, di superficialità e di disonestà intellettuale, ma, almeno nel 2017, si tratta solo di caratteristiche meritorie che possono costituire il passaporto necessario per tentare di entrare nel salottino.
Mi prendo allora una tregua pubblicando Giovinezza e lo faccio qui (il blog è mio e lo gestisco io) perché nessun editore rischierebbe mai di pubblicare la mia letteratura, per innocua che sia, in questo modo lasciando qualcosa di me alla posterità pur se, a pensarci bene, del mio rapporto con la posterità non m’importa nulla.
Per apprezzare la storia bisognerebbe essere vecchiotti, conoscere i romagnoli, il loro linguaggio e il loro modo di essere e di affrontare la vita. Il massimo sarebbe leggerla ad alta voce con l’accento di quella terra.
GIOVINEZZA
“Tabacco, c’è questo…”
“Per chi?”
“Per Casadio.”
Il messo comunale porse una busta verdastra all’uomo a torso nudo che continuava a picchiare sull’incudine.
“Cino!”
“No, no. Prendila te.”
“Sono sporco.” L’uomo cercò di spazzarsi una mano nel sedere dei pantaloni, ma il messo aveva già appoggiato la busta su uno sgabello e se l’era data a gambe. Tabacco si ripulì alla bell’e meglio la mano destra, raccattò la missiva e la portò nell’altra stanza.
“O Cino, è arrivato Piada con ‘sta busta, me l’ha mollata a me e poi è scappato in bicicletta che neanche Guerra…”
Cino si guardò le mani, si sputò sull’indice e ne sfregò il polpastrello contro quello del pollice. Quando si sentì pulito prese la busta e la guardò. L’aprì.
“Camerata Maestro Casadio Cino, il 16 corrente mese la finitima Città di Bagnacavallo riceverà l’onore della visita del Federale Sua Eccellenza il Cavaliere Lamanna Nicola accompagnato dall’ospite alleato germanico signor Von Niederhäusern Wolfgang. Il Podestà della vicina Città ci sollecita l’intervento della Banda da Voi diretta che, nell’occasione, sarà chiamata ad eseguire un programma consono alla circostanza. Alalà. Firmato: Comune di Russi, il Podestà Teodorani Aleardo.”
A matita leggera ma chiaramente leggibile, la mano stessa del Podestà aveva aggiunto in calce “Casadio non fare l’asino.”
“Ma cosa me ne frega a me?” Cino si alzò mentre la voce da basso profondo finiva di echeggiare tra le volte nere della bottega di fabbro. Per un dito non arrivava ai due metri, passava il quintale di un pezzo e aveva due braccia che, se non fossero state nere e pelose, sarebbero potute passare per un paio di prosciutti. “A me del Federale e del germanico là non me ne frega niente.” Appallottolò il foglio e lo buttò nella fucina, poi prese pinze e martello e si mise a picchiare sopra un pezzo di ferro arroventato. “Bandiera rossa la trionferà…”
Ogni mercoledì sera la Banda “Ricci Petitoni Città di Russi” si radunava per le prove in un’aula della scuola elementare. Quel mercoledì Cino si presentò con un fazzoletto rosso al collo.
“O Casadio, cos’è successo?” Chiese la tuba.
“Che cosa dovrebbe essere successo?”
“Il fazzoletto…”
“Quale fazzoletto?”
“Dai, Casadio! Il fazzoletto rosso! Te lo metti solo quando…”
“Quando mi pare.”
“Diccelo, Casadio,” incalzò il flicorno.
“Non puoi venire con il fazzoletto e poi…” allargò le braccia il clarinetto.
“Basta, cominciamo le prove, che stasera voglio finire presto!”
Di mala voglia, con un attacco sbrodolato, partì “Il Fringuello”, un sei ottavi che il grande Braccali aveva scritto apposta per la Ricci Petitoni.
Cino si sbracciava e sudava più del solito, batteva il piede, lanciava occhiatacce a tutti. “O giovani! Che cos’è ‘sto schifo?” La banda riprese daccapo. Sette, otto battute e “Ma quale fringuello: sembra che stiamo ammazzando il maiale!”
Il flauto, che nell’occasione era all’ottavino, non si era accorto di niente e continuava a suonare da solo. Tutti si voltarono a guardarlo. Era il suo pezzo, quello da virtuoso, quello in cui poteva lasciare sfogo alla poesia di cui il suo cuore era lo scrigno. Samorì era un ometto piccolo, linfatico, un poco soprappeso, con non più di una dozzina di capelli che gli penzolavano sopra gli orecchi dai lobi lunghi e flosci e con un paio d’occhietti chiari, liquidi e cisposi. Era il solo componente della banda che facesse della musica una professione: diplomato al conservatorio, era secondo flauto al Teatro di Lugo e dava lezioni private di solfeggio. Nel silenzio, continuava imperterrito a cinguettare nell’ottavino con gli occhi sgranati sullo spartito. Come arrestare quella cascata di trilli, di frullati, di semibiscrome staccate?
“Samorì!”
Il tuono di Cino lo raggelò a mezzo di una battuta.
Ci fu almeno un minuto di silenzio tombale. A nessuno veniva neanche in mente di soffiare negli strumenti per sputar fuori la condensa. Cino si girò e andò a sedersi dietro la cattedra, infilandosi a fatica tra i braccioli della sedia. Li guardò tutti, uno per uno. Silenzio. Poi, finalmente “Teodorani… – mormorò – fra un paio di settimane Teodorani vuole che andiamo a Bagnacavallo.”
I suonatori non capivano e si guardavano l’un l’altro, interrogandosi con le sopracciglia e con le spalle che andavano su e giù.
“Be’, – dopo qualche attimo azzardò il trombone nella qualità di più anziano del gruppo – certo, Bagnacavallo… Però, dai, Cino, non è una tragedia.”
“No, – fece la grancassa – non è una tragedia…”
“Ci abbiamo già suonato altre volte…”
“Anche con tuo babbo, poverino…”
“Bisogna ammettere che proprio Bagnacavallo… Però possiamo anche…”
“‘Giovinezza’!” sbottò Cino. Nessuno capiva. “A Bagnacavallo arriva il Federale con un papavero tedesco. Avete capito?”
Forse sì. Forse qualcosa…
“Vuoi dire che dovremo suonare la loro roba?”
“Ah, ci siete arrivati, finalmente!”
“Ma Dio bono, Casadio, se non ci dici niente come facciamo a capire?”
Si cominciò con un brusio e si finì con un vociare assordante. “Io non suono!” “Io neanche!” “Io, piuttosto, mi taglio un dito!”
“Basta, adesso! – La voce di Cino era capace di sovrastare qualsiasi rumore. – Adesso andate a casa. Tanto stasera qui non si combina niente.”
“Ti ho detto che non ho fame!”
“O Cino, ma sei diventato matto? Ti ho aspettato fino a quest’ora. Quando ti ho sentito arrivare ho buttato giù gli strozzapreti e adesso ti metti a fare delle storie…”
“Mangiateli te, i tuoi strozzapreti! Io vado a letto.”
La Marta non era molto più alta di mezzo Cino e pesava certo meno della metà. Mentre lui sbatteva la porta, lei si tirava vicino il tegame e, forchetta alla mano, si metteva al lavoro, spazzandosi di tanto in tanto la bocca con l’avambraccio e facendosi spazio nello stomaco con delle mescite frequenti e generose dal fiasco di Sangiovese.
La domenica mattina Cino andava dal barbiere. Anche Teodorani. Senza guardarsi, la faccia insaponata, sedevano l’uno accanto all’altro.
“Passa anche da noi il Federale?” fece Ricciotti il barbiere, pinzando con le dita la punta del naso del Podestà e tirandola su per lavorare meglio di rasoio.
“Mi hanno detto che c’è anche la Ricci Petitoni a Bagnacavallo,” diceva intanto Menotti, fratello di Ricciotti, mentre passava la lama gracchiante sul collo di Cino.
“No,” dissero all’unisono Teodorani e Cino, girando per un attimo gli occhi, ognuno verso la poltrona accanto, senza muovere la testa.
“Va a finire che Casadio mi mette nei guai,” disse il Podestà a sua moglie.
“Mangia su.”
“Mangia su, mangia su… A quello là non gli è abbastanza una banda: due ne vuole. Va a Bagnacavallo: si accontenti della banda di Bagnacavallo! No, due ne vuole, lui…”
“Lui chi?”
“Il Federale.”
“Dai, Teodorani, mangia su.” La signora Adele non aveva mai chiamato suo marito Aleardo. Tutti lo chiamavano Teodorani, anche quando era alle scuole elementari, e anche a lei non sarebbe mai venuto in mente d’identificarlo con un altro nome. “Non mi lascerai mica lì i quadrettini?”
“I quadrettini… Il 16 arriva il Federale nuovo, quello che viene da Bari, e si porta dietro un tedesco che ha un nome che non lo sa neanche lui e questa qua mi sta a parlare dei quadrettini…”
“Ma va a Bagnacavallo…”
“Sì, a Bagnacavallo. Però vuole due bande e il Podestà di Bagnacavallo mi chiede la mia. Anzi, quella di Casadio. Lo sai com’è Casadio…” L’Adele guardava i quadrettini. “Lo sai com’è Casadio?”
“Sì, sì, lo so.”
“E allora se lo sai, perché vuoi che mangi i quadrettini?”
“Ma che cosa c’entrano i quadrettini?”
“L’appetito! Mi fate andare via l’appetito, te e quello là… Lui la banda non la vuole dirigere.”
“Casadio?”
“Casadio.”
“Te l’ha detto lui?”
“No! No, lui sta zitto. Mi guarda con gli occhi…”
“Ma con che cosa vuoi che ti guardi?”
“Mi guarda con gli occhi di traverso. Oggi, dal barbiere, mi guardava di traverso e non diceva niente.”
“E allora, se non diceva niente, vuol dire che..”
“Vuol dire che aspetta fino al 16 e poi mi fa la sorpresa. Quello là a Bagnacavallo non ci viene. Te lo dico io: quello là mi mette nei guai.”
“Parlagli.”
“Parlagli? Io? Io a Casadio?”
“Ma, insomma, se gli devi dire qualcosa, parlagli.”
“Ma che cosa ti viene in mente?”
“Quando si deve dire qualcosa, si parla.”
“Parlargli! Ma come faccio?”
“Vai da lui e gli parli con la bocca.”
Teodorani si alzò di scatto, si strappò il tovagliolo che aveva intorno al collo e lo sbatté sulla tavola, anzi, direttamente nel piatto, facendo schizzare il brodo e i quadrettini. La signora Adele scosse la testa e andò a prendere uno straccio da infilare sotto la tovaglia dove era bagnata.
Domenica. In Municipio non c’era nessuno. Teodorani si aggirava per le stanze vuote e per il corridoio come un leone in gabbia. “Quando c’è bisogno sono tutti a spasso,” ruggiva rivolto alle scrivanie deserte. Bisogno di che, non avrebbe saputo dire.
Si sedette al suo tavolo, guardò la foto del Duce appesa alle sue spalle, si mise di profilo davanti alla finestra che faceva specchio e tirò fuori la mandibola. Si sedette e prese carta e penna. “V’ingiungo…” Si fermò, guardò il foglio, lo appallottolò e lo gettò nel cestino. “Siete convocato…” Via anche quello. “L’orgoglio patrio…” Ma che c’entra l’orgoglio patrio? Stessa sorte anche per quel foglio. Dopo un’ora il cestino era al limite estremo della capienza e le palle di carta cominciavano a rotolare per terra.
La notte non ci fu verso di prender sonno. Che figura avrebbe fatto se quello non si fosse presentato! E se, peggio ancora, fosse andato e si fosse messo a suonare… a suonare quel che gli pareva a lui… E poi era caldo, bisognava tenere la finestra aperta per non morire soffocati e c’erano le zanzare. Il lenzuolo era fradicio di umidità e di sudore e l’Adele, lei sì che dormiva, faceva delle pernacchiette con le labbra. Era un dormiveglia insopportabile.
“Dai, Casadio… Io v’ingiungo…. In nome della fratellanza italo-germanica…”
“Teodorani…” bisbigliò l’Adele.
“Ma che cosa ti costa…”
“Teodorani…”
“Zitta, te!”
Il mattino dopo, alle sei e mezzo, il Podestà era già in fondo alla strada a spiare da lontano, senza farsi vedere, il portone della bottega da fabbro. Se ne stava quatto, seminascosto dietro una colonna del portico e ogni minuto tirava fuori l’orologio dal taschino.
“Che cosa fai qua, te?” Cino torreggiava dietro di lui e gli aveva gelato il cuore con quella vociaccia. “Guardi che non mi rubino la bottega?”
“Casadio… Ascolta, Casadio…”
“Volevi me?”
“Casadio…”
“Fa in fretta, che devo andare a lavorare!”
“Ascolta… E’ per quella roba della banda…”
“Quale roba della banda?”
“La… ma sì… la roba di Bagnacavallo…”
“Ah, la roba di Bagnacavallo!”
“Sì.”
“Ah, quella!”
“Quella lì.”
“No.”
“No?”
“Io quella roba non ce l’ho nel repertorio.”
“Quale roba non hai nel repertorio?”
“La roba di Bagnacavallo.”
“Ma dai, Casadio…”
“No.”
“Ma se non sai neanche…”
“No.”
“Insomma: la Ricci Petitoni è del Comune!”
“E il signor Podestà la dirige! Ti saluto, Teodorani.”
La porta della bottega cigolò e dopo cinque minuti il martello picchiava già, accompagnando “Bandiera Rossa” sul registro di basso profondo.
Che cosa fare? Dopotutto la banda era davvero del Comune. Era il Comune che metteva a disposizione la scuola elementare per le prove, era il Comune che pagava le spese di trasferta, il Comune aveva fornito le camicie nere. E allora la banda doveva fare quello che voleva il Comune, il Podestà. Come si permetteva quello? Disobbedire agli ordini? A lui che Sua Eccellenza il Cavalier Benito Mussolini in persona… Il Podestà era… Il Podestà… Teodorani drizzò la schiena, divaricò le gambe e si mise le mani sui fianchi. “Il Podestà vi ordina…”
Ma era inutile farsi illusioni: lui Casadio lo conosceva bene da quando erano bambini. Che testa dura, quello!
“Il signor Podestà la dirige…” aveva detto Casadio. La dirige… Lui no, ma…
Teodorani corse a casa di Samorì, il flauto. Suonò il campanello. Una vecchia si affacciò alla finestra.
“Dov’è Samorì?” gridò lui dalla strada. La vecchia lo considerò in silenzio, masticandosi le labbra con le gengive. “Dov’è Samorì, dunque?”
“A Lugo. E’ a Lugo a fare le prove.”
Teodorani corse via mentre la vecchia gridava “Samorì è a fare le prove,” e, inforcata la motocicletta, si precipitò a Lugo. Qui irruppe nel teatro a dispetto di un inserviente che, vecchio com’era e zoppo, tentava di rincorrerlo.
“Sono il Podestà!”strillava Teodorani correndo verso la buca dell’orchestra.
“Non è mica vero!” ansimava dietro di lui l’inseguitore.
“Che cos’è questo baccano?” urlò il direttore in bretelle.
“Sono il Podestà!”
“E’ Teodorani!” esclamò Samorì.
“Samorì! – esclamò di rimando Teodorani – ho bisogno di voi.”
“Fuori di qui! Queste sono le prove!” ruggì il direttore, brandendo la bacchetta.
Teodorani si fermò d’improvviso, si piantò sulle gambe divaricate con le mani sui fianchi e “Me ne frego!” gridò.
“Voi dovrete dirigere la banda.”
“Io?”
“Voi.”
“C’è da fare ‘Giovinezza’. Loro, quelli di Bagnacavallo, fanno una roba tedesca e la Ricci Petitoni fa ‘Giovinezza’. Capito?”
“E io?”
“Voi dirigete.”
“E Casadio?”
“Lasciate perdere Casadio! Se vi dico che voi dirigete, voi dirigete. Capito?”
“Sì, sì… Però Casadio…”
“Insomma, siete capace sì o no di dirigere la banda?”
“Sì…”
“Siete capace di preparare ‘Giovinezza’ per il 16?”
“Ma… sì…”
“E dunque…”
“Se Casadio non…”
“Chi sono io?”
“Voi?”
“Io!”
“Se non lo sapete voi…”
“Insomma, sono o non sono il Podestà?”
“Teodorani, il Podestà, sì…”
“E allora, io vi comando…”
Cino si arrestò a qualche decina di metri dall’ingresso della “Fraschina”. Era notte fonda. Attese cinque minuti prima di vedere un uomo fermarsi un attimo davanti alla porta dell’osteria e subito dopo entrare. Altri due minuti ed entrò anche lui. Senza guardarlo, il padrone gl’indicò appena con un dito una scala. Cino salì e aprì la porta. Dietro la tavola, seduto, illuminato solo dalla luna, c’era l’uomo che era entrato prima di lui. Cino gli si sedette di fronte, la tavola tra loro, senza che né l’uno né l’altro aprisse bocca. Restarono così, in silenzio, alcuni minuti.
“Allora?” fece finalmente l’uomo.
“Ci siete anche voi?”
“Dove?”
“In piazza.”
“Per il Federale?”
Cino annuì. L’uomo si tirò i baffi, si passò una mano fra i capelli, allargò le braccia e si aggrappò alla tavola. “Lo sai anche te,” disse.
“Io non dirigo.”
L’uomo sbuffò, alzandosi in piedi, e si mise di spalle contro la finestra. “Io…”
“Ascoltami, Fabbri, noi non ci siamo mai voluti bene. Le nostre due bande sono nemiche dai tempi dei nostri padri e magari dei nostri nonni. Mio babbo e tuo babbo si sono presi a cazzotti almeno dieci volte e anche noi due… Te non mi sei simpatico e io non sono simpatico a te, questo lo sanno tutti. Ma questa volta, no: non si può fare la roba dei fascisti. Dopo possiamo continuare a darcele di santa ragione e, anzi, solo a vederti mi viene già la voglia. Ma adesso bisogna… Mi hai capito, boia d’un Fabbri?”
Mercoledì sera, alla scuola elementare, Samorì gocciolava di sudore dal naso, dal mento e dagli orecchi flaccidi. “No, no, – gridava – più marziale!”
“Faccelo sentire te,” disse il clarinetto.
Samorì aprì l’astuccio del flauto, si leccò le labbra e attaccò ‘Giovinezza’. Dopo qualche battuta si fermò. “Così la dobbiamo fare. Avete capito?”
“Faccela tutta, Samorì.”
Ma come facevano, quelli, a non capire? Marziale, doveva essere. Non si poteva mica sembrare delle donnicciole al cospetto dell’alleato germanico! Marziale! Samorì riportò il flauto sotto il labbro e ricominciò. Tutta la banda era in silenzio, attenta e quasi rapita. ‘Giovinezza, giovinezza, primavera di belle-e-e-ezza. Nel Fascismo…’ Il flauto risuonava come una tromba: marziale. “… Per Benitooo Mussoliniii…” Come Samorì troncò l’ultima nota, sulla a accentata di ‘alalà’, uno scoppio lacerante e asciutto, di chiara origine intestinale, completò l’esecuzione.
“Scusa, Samorì, – fece la grancassa – ma mi sono così emozionato che mi è partita una slofa.”
“… della nostra gioventù,” canticchiò il trombone con aria meditativa e, facendo il gesto del direttore, imitò le interiora del collega.
“Ma lo sai, Samorì, che così viene meglio?” Annuì il flicorno.
Fu una specie di coro. Chi proprio non ce la faceva con il ventre, si dava da fare con la bocca.
“Fanno le slofe…”
La signora Adele si girò nel letto, si sollevò un poco e guardò suo marito che dormiva a bocca aperta e con la retina per i capelli che, nell’agitazione, gli era scesa sugli occhi.
“Casadio si dà malato… e loro fanno le slofe…” borbottava il Podestà.
“Teodorani…” sussurrò l’Adele. Ma lui continuava a dormire e ad agitarsi. “Aleardo…” Che strano effetto, chiamarlo Aleardo.
“Aleardo?” fece lui.
“Che cosa c’è, Teodorani?”
“Dove?”
“Chi è che fa…”
“Che fa che cosa?”
“Quelle cose lì…”
“Quali cose lì?”
“Le…le cose…”
“Ma, insomma, Adele, che cosa vuoi a quest’ora? Chi è che fa che cosa?”
“Le slofe.”
“Ah, le slofe! Che cosa sai, te, delle slofe?”
“Teodorani, io niente. Lo sai che io…”
“Ma sì, ma sì: me l’ha detto Samorì.” E diede un ampio resoconto, illustrato da dimostrazioni orali di dove e come si sarebbe svolto l’attacco al Partito e all’alleanza.
Il 16 la piazza di Bagnacavallo straripava di calca. Il Podestà, con il collega di Russi, era impettito nella sua camicia nera davanti alla porta del Comune. Le due mogli stavano con matronale modestia un poco discoste.
“Dopo si va a mangiare, vero?” Annina Savorani aveva già partecipato a un bagno di folla del genere più o meno tre quarti di secolo prima. Allora c’era l’Eroe dei Due Mondi, fresco di unità, e lei aveva costituito una sorta di omaggio popolare al biondo conquistatore, omaggio che, a giudicare dalle occhiaie del giorno dopo e dal discorso in cui s’insisteva su ‘l’ospitalità generosa della Romagna’, era risultato particolarmente gradito. Ora Annina – il tempo pretende un esoso pedaggio – veniva riproposta in veste di centenaria, anche se ai cent’anni mancava ancora qualcosa. “Dopo si va a mangiare, o no?”
“Sì, sì, si va a mangiare.”
“Ah, dicevo… Perché qui ‘sti tedeschi si fanno aspettare.”
“State tranquilla: arriveranno.”
“Intanto non c’è mica un crostino di pane?”
“Dopo si va a mangiare, vi ho detto.”
“Sì, ma intanto un crostino di pane…”
Un boato dalla piazza annunciò l’arrivo dell’automobile nera che avanzava velocissima. Una frenata brusca, giusto davanti al Comune, e le portiere spalancate di scatto da cui uscirono tre uomini. Dopo un attimo, sul palco su cui si assembravano autorità e maggiorenti, il braccio proteso a salutare la folla plaudente, il Federale in camicia nera, tarchiato, pelato e con la mandibola spinta arditamente in fuori; Von Niederhäusern, piccolo, magro, con un ciuffetto di capelli imbrillantinati di sbieco sulla fronte e i baffetti, e un giovanotto altissimo, un po’ curvo, biondiccio e con i denti da coniglio.
“Chi è quello lungo?” chiese sottovoce Teodorani al collega di Bagnacavallo.
“E’ Valtero, il traduttore.”
“E’ il figlio dell’albergatore di Merano, – aggiunse la moglie del Podestà di Bagnacavallo, tenendosi una mano davanti alla bocca. – Il tedesco ci va tutti gli anni in vacanza e adesso si porta dietro il ragazzo che gli fa da interprete.”
Il Federale iniziò il discorso e Valtero, ritornato per il momento Walter in onore dell’ospite alleato, traduceva nell’orecchio di Von Niederhäusern che, ben attento a conservare l’espressione furibonda, annuiva.
“Pare proprio il Duce,” disse l’Adele, perché lei il Duce l’aveva visto davvero e poteva fare i confronti.
“Mi pare anche a me, “ confermò la donna grassa che le stava vicina. Lei il Duce non l’aveva visto ma, in qualità di moglie del farmacista, disponeva di un’opinione di peso.
“Sì, sì, – annuirono le altre intorno – è lui sputato.”
Fu il turno di Von Niederhäusern. Ogni frase veniva ripetuta in italiano da Walter a beneficio dei convenuti. Nell’italiano di Merano, naturalmente.
“Per me parlano uguale,” disse l’Annina.
“Ma che cosa dite?”
“Io non capisco quand’è che devo stare attenta. Parlano straniero tutti e due.”
“State buona, Annina, che adesso tocca a voi.”
Il Podestà di Bagnacavallo fece un cenno con il capo, sua moglie tolse il crostino di pane dalle gengive della vecchia, e Annina fu portata davanti agli ospiti.
Iniziò tutta una serie di altri discorsi, nel corso dei quali Annina fu definita “protagonista del Risorgimento”.
“Quand’è che si va a mangiare?”
“State buona, Annina. Appena i discorsi sono finiti…”
“Mezzogiorno è suonato da un pezzo e questi qui…”
“Abbiate pazienza ancora un momento.”
Ma i discorsi non finivano mai.
Annina prese la manica della camicia nera di Walter e la tirò. “Quand’è che ‘sto patacca la smette?” chiese indicando Von Niederhäusern che stava parlando in quel momento.
“Patacca? – fece il traduttore – Io questo non capisco.”
“Ma sì, – bisbigliò, paonazzo in viso, il Podestà di Russi – vuol dire amico alleato.”
“No, no, – corresse la vecchia – ascoltami me, che lui non sa spiegare. Per esempio, te sei un patacca.”
Walter continuava a non capire e fece per chiedere ulteriori spiegazioni quando un cenno del tedesco lo chiamò a sé.
Come Dio volle i discorsi terminarono.
“E ora le bande!” esclamò il Podestà di Bagnacavallo.
Teodorani sentì il cuore che gli si sbriciolava nel petto. Il collega lo guardò e chiuse gli occhi.
Samorì alzò le braccia e sulla piazza calò all’improvviso un silenzio gravido d’attesa. Un gesto e via: la banda Ricci Petitoni attaccò ‘Giovinezza’. Ci volle un po’ perché gli occupanti del palco si rendessero conto che non dagli strumenti arrivava la musica ma dalle bocche di tutti i suonatori. Tutti, compresi quelli della banda locale dall’altra parte della piazza: eseguivano ognuno la propria parte a pernacchie. Dapprima timidamente, poi con un entusiasmo che cresceva come una valanga, tutta la folla si unì alle due bande che l’occasione – quella e solo quella, sia chiaro – aveva affratellato. Samorì era di sale, immobile, con le braccia sospese a mezz’aria. Il pezzo durò almeno cinque minuti. Lunghi, interminabili, eterni. Cinque minuti di pernacchie rigorose, perfettamente intonate, a tempo, marziali, in tutti i timbri, dall’ottavino al basso tuba. Alla fine ci fu silenzio per un attimo. Poi Von Niederhäusern annuì e accennò un applauso che Walter ripeté quasi a tradurlo. Un momento dopo tutta la piazza applaudiva e si andò finalmente a mangiare.
AmarcordE’ un po’ difficile non pensare al capolavoro di Fellini, leggendo questo racconto. Si risente quella stessa atmosfera un po’ ovattata e sospesa, in cui, per chi sa guardare, ci sono già tutti i segnali della tragedia che incombe.Nei personaggi del racconto ognuno di noi può trovare se stesso, perché la vita ci mette sempre davanti un tiranno da combattere e ognuno si regola secondo la propria morale. Forse c’è una nota di eccessivo ottimismo, almeno secondo la mia esperienza, che mi ha insegnato che il coraggio per quella pernacchia ce l’hanno poi davvero in pochi, anche quando di coraggio… Leggi il resto »