Di tanto in tanto, chissà come e chissà perché, questo blog diventa irraggiungibile. Un puro caso, naturalmente, un caso al quale certi argomenti pare non piacciano troppo.
Ciò che Nutrigea, la ditta produttrice delle alghe, ha fatto concedendo uno sconto a chi ordina con il codice SM2020 e riservando una piccola percentuale al laboratorio Nanodiagnostics per dargli una mano a sopravvivere non è piaciuto al caso che ha subito provveduto a prendere le debite contromisure. E se le alghe funzionassero e la gente si ammalasse meno? E se l’assedio con cui abbiamo tentato ripetutamente di isolare quel maledetto laboratorio avesse una falla? Meglio prevenire. Per sicurezza scateniamo anche le truppe cammellate con il loro fango (espressione ad usum Delphini per intendere altro materiale.)
Intanto, visto che molti di voi non hanno niente da fare e, magari, temono le randellate di De Luca, pubblico un racconto che scrissi anni fa. È lungo, ma dovete pur far passare il tempo.
Chi aveva trovato Kafka in Pigmalione qui faticherà a trovarlo.
LA CALZA IN TESTA
La nebbia non era fitta, ma l’avresti potuta prendere a manate, greve com’era. Gli alberi stavano là, sembravano tutti alla stessa distanza, schizzati in un campo uniforme biancastro, i cespugli ingrossati dai cristalli di ghiaccio come gatti arrabbiati e la strada lungo il torrente, di solito fangosa, che si sbriciolava al passare delle ruote. Benché fosse in bicicletta da quasi mezz’ora Amos non riusciva a scaldarsi le gambe e, nonostante gli sforzi, avanzava lentamente, un poco zigzagando, seguito qualche metro più indietro da suo padre. Dalle due teste incappellate e fasciate dalle sciarpe fumigava una nuvola di vapore. Amos alzò un braccio, lo riappoggiò sul manubrio e tirò i freni. Suo padre lo schivò appena, allargò le gambe e si fermò un poco più avanti. Scendere dalla bicicletta così infagottati e intirizziti non è affar semplice. Amos si mise dritto di fianco alla bici, appoggiandosi il sellino al sedere. Goffamente, con la mano nel guantone di lana ghiacciata, si slacciò gli ultimi due bottoni del cappotto di cui allontanò un falda con il gomito. I bottoni dei pantaloni erano più piccoli e più ravvicinati e, perciò, più difficili da aprire. Adesso veniva la parte complicata davvero. Amos rovistò a lungo finché non trovò qualcosa. Fissando il cielo, per indiscernibile che fosse, lasciò sfogo al bisogno che il freddo aveva reso impellente e fu subito che si accorse di aver sbagliato qualcosa. Il rivolo caldo lungo la coscia non lasciava dubbi. Per pura curiosità si piegò in avanti per guardare che cosa mai tenesse allora stretto nel guanto. Era la cocca della camicia.
Pedalarono ancora dieci minuti buoni prima di entrare nell’aia deserta.
“E’ nella stalla,” gridò la vecchia sdentata che stava di vedetta in cucina picchiando con le nocche sulla finestra appannata.
Dai portapacchi sui parafanghi posteriori i due presero le loro borse di cuoio e spinsero il portone. Una zaffata calda d’ammoniaca tolse loro per un attimo il fiato. Tra le due vacche c’era un mucchio di coperte da cui scaturiva una tosse continua.
“Siamo arrivati,” annunciò il dottore.
“Siamo arrivati,” ripeté Amos, guardando suo padre per approvazione.
Dalle coperte ammonticchiate sbucò il paziente. Sulla testa teneva una calza di lana un po’ grigia e un po’ rosa che sollevò appena dagli occhi.
“Chi è?” pigolò.
“Sono il dottore.”
“Il dottor Licurgo Lasagni e il dottor Amos Lasagni,” specificò Amos.
“Come va?”
“Sono qui che muoio…”
“Si capisce: con la polmonite…”
La porta si aprì e si richiuse in fretta.
“Buongiorno, dottore.”
“Buongiorno, Cataldo.”
“Buongiorno, Cataldo,” fece Amos.
“Muore?”
“Sì, sì.”
“Muore, muore,” confermò Amos.
Il vecchio tirò un po’ più su la calza, trattenendo la tosse.
“Con la polmonite non si scherza.”
“Loro ci scherzano,” ridacchiò Amos, scuotendo la testa.
“E quelle medicine nuove?”
“Le medicine nuove… Ma Cataldo, le medicine nuove sono delle muffe. Ci pensi? Muffe! Se uno potesse guarire con la muffa, in famiglia da voi non avreste neanche un raffreddore.”
“Vogliono guarire con la muffa!” Amos allargò le braccia.
“E quanto costerebbe ‘sta muffa?”
“Quanto costa? Molto: centinaia di lire.”
“Sono care e sono muffe,” spiegò Amos.
“Troppo, – ammise Cataldo – e poi per della muffa…”
“Però non si sa mai, – fece il vecchio cercando di assumere un tono di saggio possibilismo – delle volte anche la muffa… Uno dice la muffa, però…”
“Sì, sì, – l’interruppe Cataldo – voi state lì al caldo, in mezzo alle vacche, che alla muffa ci penseremo.”
“Lo sciroppo?”
“Finito,” tossì il vecchio.
“Scrivi.”
Amos tirò fuori dalla borsa il ricettario, l’appoggiò sullo sgabello della mungitura e scribacchiò qualcosa, porgendo poi la ricetta a Cataldo.
I tre si allontanarono dal morituro che si calò di nuovo la calza sugli occhi e rientrò sotto le coperte, tossendo.
“Ah, Cataldo, – disse il dottore infilando la mano nella tasca del cappotto – stamattina sono passato dal postino che è malato e mi ha dato questa lettera per te. Dice che ce l’ha da due o tre giorni. E’ una raccomandata. Ho firmato io per te.”
“Una lettera? A me?”
“Piglia.”
Cataldo prese la busta un po’ spiegazzata e se la rigirò tra le dita livide.
“Ha le ragadi,” fece Amos.
“Ma chi è che mi scrive?”
“Dà qua. – Il Dottore prese la busta e, allontanandola da sé con gli occhi strizzati – da un notaio… – disse – viene da un notaio di Modena.”
“Un notaio? Di Modena? A me?”
“Guarda. Leggi.”
“Io non me ne intendo mica di quelle cose lì.”
“Vuoi che te la legga io?”
“No, no. Non vi disturbate. La faccio leggere dalla Romana che lei è capace.”
“Come ti pare.”
I due medici ripresero le biciclette.
“Che odore… – fece il vecchio Lasagni tirando su con il naso – Amos, ti sei pisciato addosso?”
“Sì.”
Cataldo attraversò l’aia correndo ed entrò in casa. La cucina, piena di vapore, era abbastanza calda, comunque molto più calda del resto della casa.
“Muore?” chiese la vecchia.
“Dice di sì.”
“Ve’ mo’: uno si fa la dentiera che è meno di un anno e poi…”
“E’ andata così.”
“Che se c’era uno che aveva bisogno della dentiera, quello lì non era mica lui. Lui tre denti ce li aveva: uno davanti e due di mezzo.”
“Ve l’ho detto: è andata così. Che cosa ci volete fare?”
“Io non ce n’ho neanche uno di denti…”
“Sì, sì, voi non ce n’avete neanche uno però mangiate come se ce n’aveste quaranta… Dov’è la Romana?”
“E’ su.”
“Con lui?”
“Si capisce.”
Al piano di sopra faceva un freddo cane. Dalle coperte emerse per primo Fioravante. Saltellando su una gamba per volta s’infilò in fretta le mutande rosa lunghe fino alle caviglie. Maglia e calze se l’era tenute addosso. Anche la Romana si rivestì il più velocemente possibile.
“Avete fatto?” gridò da sotto Cataldo.
Fioravante estrasse il pettine dal taschino della giacca e si ravviò i capelli impomatati davanti allo specchio. Diede anche un colpetto ai baffi sottili scoprendo il canino d’oro mentre faceva schioccare la guancia. Sui vestiti infilò la tuta da motociclista, entrò nel cappotto, incappucciò la testa nel casco di pelle e, spingendo le mani nelle manopole imbottite, scese le scale. Si fermò un attimo, si sfilò una manopola, si alzò il paraorecchi e si aggiustò il batuffolo di cotone nell’orecchio. Al terzo o quarto tentativo il motore si accese e un attimo dopo il rombo della motocicletta svanì oltre il letamaio.
Romana entrò in cucina. Sollevò il coperchio della pentola e contò le patate.
“Perché cinque?”
“Non è mica ancora morto,” disse la vecchia.
“E’ venuto il dottore?”
“E’ venuto, – disse Cataldo. – Sono venuti tutti e due, il vecchio e il giovane, e tu non te ne sei neanche accorta. Aveva da fare con quello là, la signorina…”
“Avevo da fare… E allora?… Lui è un signore…”
“Sì, sì, un signore…I signori aprono il borsellino dopo che hanno fatto i loro comodi. Quello di prima che veniva da Marano, almeno…”
“Un signore! Guardate mo’ qua!” Romana tirò fuori dalla tasca del grembiule una cosina tondeggiante incartata nella stagnola.
“Che cos’è?” chiese la vecchia.
Romana aprì l’involucro, ne estrasse qualcosa e se l’infilò in bocca.
“Mmm…” mormorò estasiata.
“Cos’è che hai messo in bocca?”
“Un cioccolatino con la ciliegina. Roba che c’è a Modena. Roba che se aspetto voi…”
“Aspetta lui, allora, – disse Cataldo – e aspetta anche sua moglie.”
“Ecco, mi volete fare piangere!”
“Prima di piangere leggi qua.”
La ragazza si trovò sotto il naso la lettera del Notaio.
“Una lettera?”
“Dai, leggi.”
Romana era arrivata a un passo dalla quarta elementare e non aveva neanche un problema quando si trattava di leggere. Una volta aveva anche letto un romanzo, e si vedeva chiaramente perché il libro era ancora sull’altarino di Sant’Antonio, un romanzo intero con un sentimento di due che si amavano di un amore puro. Lei era una dattilografa, che è come dire una che scrive a macchina non si sa che cosa ma non importa perché tanto la pagano lo stesso, e lui era un rappresentante di profumi che viaggiava. Tutto bene, ma lei aveva un terribile segreto nel cuore: aveva avuto un figlio da un uomo misterioso che era scomparso. Dopo mille peripezie con dei fatti che è meglio non dire perché ci sarebbe da star male, alla fine non si scopre che quello dell’amore puro non era altro che l’uomo misterioso che era scomparso dieci anni prima per metterla alla prova? ‘Greta, io ho conosciuto prima il tuo corpo e solo poi la tua anima ed è questa che mi ha stregato’ le aveva detto lui. Robe del genere ti rimangono dentro. Un romanzo che, se se ne trovasse un altro così, quasi quasi lo leggerebbe. A dir la verità non si capiva come avesse fatto lei a non riconoscere lui. Fioravante, per esempio, aveva un dente d’oro e delle volte anche un po’ d’insalata sopra, e aveva una natta in una chiappa e, non foss’altro per questo, lei l’avrebbe riconosciuto in una folla di mille. E poi quell’odore misto di brillantina e di catarro così suo… Quello di Marano aveva una gamba più corta. Quello di prima aveva un occhio bianco. Ognuno è fatto a modo suo, insomma. Sarà questione dell’amore puro che usa in città, con le dattilografe e tutto il resto, che si fa più fatica a vedere i particolari. L’amore puro lei al momento non ce l’aveva, ma il terribile segreto l’aveva avuto sì. Quando la storia con Fioravante, uomo sposato di una dozzina d’anni più maturo di lei, era cominciata, lui le aveva regalato una bambola che lei teneva seduta a gambe aperte sul letto senza dire a nessuno da dove venisse. Se quella non era la figlia del peccato, poco ci mancava. E dunque Romana, con l’esperienza di un cuore che ha vissuto le tempeste e una solida cultura di centocinquanta pagine all’attivo, dall’alto di una che avrebbe letto anche due romanzi se ce ne fosse stata l’occasione, guardò padre e nonna con l’aria di chi davanti ad una lettera da leggere non si mette certo paura.
“La mamma?” domandò,
“Non è ancora tornata. Tu intanto leggi.”
Romana lesse: “Egregio Signore, la invitiamo a passare, debitamente munito di documento valido di riconoscimento, presso il nostro studio, il cui indirizzo troverà nell’intestazione, il due febbraio prossimo venturo alle ore undici per una comunicazione di grande importanza che la riguarda. Distinti saluti, dottor Pierpaolo Pacchioni Pellati, notaio in Modena.”
Silenzio. I tre si guardarono per un minuto buono senza parlare.
“Che cos’è mai questo?” sbottò alla fine la nonna che non ne poteva più della suspense.
“Che cosa volete che ne sappia io, mamma? Romana, che roba è?”
“Io ne so quello che sapete voi due. C’è da andare dal notaio il due febbraio. E’ scritto.”
“Perché?”
“Ma che cosa ne so io?”
“Lei non lo sa. Ma non è lei quella che ha studiato? Per che cosa ti ho fatto studiare, io…”
Intanto la porta si aprì.
“Che freddo! Vacca, che freddo!”
“Meno male che sei arrivata. Che cos’hai portato?”
La donna tirò fuori dalla tasca una salsiccia. I tre, seduti, la guardarono.
“E’ inutile che guardiate: è tutto qua. Stamattina non sono riuscita a prendere altro e ci accontentiamo di questo.”
“Ma come…”
“Oggi mi stavano sempre con gli occhi addosso. Io pulivo per terra e loro lì. Se andavo in magazzino avevo lui dietro, se andavo al bancone c’era lei, e se non c’era lui o lei c’erano i figli. La salsiccia l’ho presa da un cartoccio già chiuso che non so neanche io come ho fatto.”
Allora stesero religiosamente la salsiccia sulla tavola e “bisogna fare cinque parti,” disse Cataldo.
“Quattro, – corresse la nonna. – Uno che è lì che sta per morire non sta mica a pensare alla salsiccia.”
Fecero quattro parti e ognuno mangiò la sua con la patata.
Nel pomeriggio la vecchia andò nella stalla.
“Dormite?” bisbigliò, chinandosi sulle coperte.
Non avendo avuto risposta, “sta a vedere che è andato” borbottò, poi prese il bicchiere con la dentiera che stava appoggiato per terra e lo portò via. E’incredibile come la dentiera di un altro, si trattasse anche del marito, non ne voglia sapere di starti in bocca.
La sera, a letto sotto le lenzuola umide e gelide, Cataldo diede un colpo di gomito alla moglie.
“Gigia… Oh, Gigia…”
“Che cosa vuoi?”
“Il Notaio…”
“Che cosa?”
“Non te l’ho mica detto del Notaio. Il due devo andare a Modena da un notaio.”
“A fare che cosa?”
“Non lo so. La Romana ha letto una lettera che ha portato Lasagni, il dottore. C’era scritto che il due devo essere da un notaio a Modena.”
“Un notaio deve essere come un avvocato, credo. O come il maresciallo dei carabinieri?”
“Non lo so. Forse.”
“Che cos’hai combinato?”
“Non lo so. Non mi ricordo di niente.”
“Roba del signor Pierino?”
“Boh…”
La mattina dopo la Balilla si fermò davanti alla porta.
“Cataldo!” gridò il signor Pierino uscito dall’auto sprofondato in un cappottone spinato lungo fino alle caviglie, con la testa imbacuccata nella sciarpa e infilata in un cappello di feltro che si fermava appena sopra gli occhi.
La porta si aprì.
“Entrate,” fece la vecchia.
“Non ho mica bisogno del vostro permesso: è o non è casa mia?”
“Sì, sì. Entrate.”
Battendo con stizza un piede per terra, il signor Pierino entrò.
“Dov’è Cataldo?”
“Viene, viene… Cataldo, c’è il signor Pierino!”
“Dorme. Quello dorme a quest’ora. Eh, beh, è logico: se i conti sono quello che sono, una ragione ci deve pur essere. Cataldo! Cataldo, ti disturbo? sei a letto?”
Cataldo era effettivamente a letto. Si svegliò di soprassalto, s’infilò in fretta e furia braghe e camicia di flanella, poi le scarpe e si precipitò giù dalle scale.
“Eri a letto!”
“No, no. Ma vi pare? A letto, io? Stavo andando ad affilare le falci…”
“Affilare le falci in gennaio?”
“Per essere pronti…”
“Senti un po’, guarda qua, – e l’ometto tirò fuori da un anfratto del cappotto un fascio di carte. – Guarda le tue glorie!”
“Io non me ne intendo…”
“Sì, lo so. Tu non sai leggere e non sai nemmeno lavorare. Ti faccio vedere io i bei risultati! Anche se non sai leggere, i numeri li capisci anche tu. – E con l’indice sotto ogni riga il signor Pierino scandì le cifre che riguardavano il podere affidato alle cure di Cataldo. Un disastro, inutile discutere. – E’ perché sei un pelandrone, è perché tua moglie, invece di lavorare qua, lavora in bottega da Venanzio e tua figlia… tua figlia… lo sappiamo tutti…”
“Lasciate stare la Romana…”
“Ma sì, ma sì: lasciamo stare la Romana che è meglio.”
“E’ il nonno che sta male: mio padre ha la polmonite e…”
“Ma che cosa c’entra la polmonite? Qua è tutto l’anno che è una catastrofe! Comunque, così non si va avanti. Basta! In luglio, finito di mietere, viene giù dalla montagna un’altra famiglia e tu togli il disturbo. Hai capito? Togli il disturbo! Tu, tua moglie, tua madre, tua figlia e tuo padre se sarà ancora al mondo. Tutti fuori!”
“Ma io dove vado?”
“Ti trovi un altro coglione come me!”
E il signor Pierino uscì sbattendosi la porta alle spalle. In un fiat la Balilla sparì dietro il letamaio.
Cataldo si grattò la testa, poi si avvolse nel mantello e uscì, incamminandosi per la carreggiata fin sulla strada che percorse per qualche passo fino all’altra carreggiata che portava alla casa del podere confinante.
“Martino!” chiamò.
“Oh!” rispose una voce.
“Martino, dove sei?”
“Nella stalla.”
Cataldo spinse la porta che odorava di vernice. Martino picchiava con il martello sopra un’asse di legno.
“Tieni qui.”
Cataldo afferrò l’asse e Martino, spingendola delicatamente, ve ne fece scivolare un’altra sopra con un incastro perfetto.
“Fatto! Fortuna che sei arrivato, sennò dovevo aspettare la Ione che è andata a vendere le galline. C’è da mettere a posto la mangiatoia e Nino è a Modena a comprare una vacca…”
“Martino, il signor Pierino mi manda via.”
“Ti manda via?”
Cataldo raccontò di mezz’ora prima.
“Ma dai, vedrai che le cose si aggiustano.”
“Si aggiustano… ma come?”
“Beh, lo sai anche tu: bisogna farlo rendere ‘sto podere… Se vuoi, io una mano te la do. Tu sei da solo, il podere non è mica piccolo. Io ho Nino. L’hai visto che pezzo d’uomo che è diventato. Siamo in due e una mano te la diamo. Dai, vedrai che si mette tutto a posto.”
La sera Cataldo, la Gigia, la Romana e la nonna, seduti intorno alla tavola, si guardavano.
“E come se non bastasse, salta fuori anche la storia del notaio.”
“Piove sul bagnato.”
La corriera arrivò a Modena prima delle otto. Non ci si poteva mica sedere da qualche parte, con quel freddo che faceva. Per fortuna non nevicava e non pioveva. Così Cataldo, stretto nel mantello, si mise a gironzolare per far arrivare le undici. Di tanto in tanto batteva a terra i piedi bagnati per vedere di scaldarli un po’. La Gigia gli aveva fatto cambiare la maglia e le mutande perché se lo mettevano in galera almeno poteva tirare avanti fino all’estate con quelle. Il fatto è che quella maglia e quelle mutande erano più leggere delle altre e tirava un vento che pelava. L’ultima volta che era venuto a Modena era stato nel ’43, di notte, con il carretto di Martino. Sotto la paglia avevano una mucca morta da vendere a mercato nero. Erano già d’accordo con il macellaio, ma i fascisti si presero la mucca e lui e Martino si accontentarono di portare a casa la pelle. La loro, non quella della mucca. Ora a Modena le case erano più giù che su, ma qualcuno aveva tappato i buchi alla bell’e meglio e, addirittura, qualche casa era già in piedi come se niente fosse stato. La gente andava e veniva, camminando sul ghiaccio, dietro le muraglie di neve spalata, gelata e annerita. I negozi avevano delle cose da vendere. Cose da mangiare. Cataldo non sapeva leggere i prezzi nelle vetrine, ma i numeri erano di tante cifre… Finalmente un campanile batté le dieci e trenta: si poteva andare dal Notaio.
“Buongiorno, – disse Cataldo alla donna che gli aprì la porta. – Io sarei Venturelli Cataldo. Avrei questa…” e porse la lettera.
“Prego, si accomodi. L’appuntamento è fra mezz’ora, come vede dall’invito.”
“Devo andare via?”
“No, no. Si sieda lì.”
La poltroncina era scomodissima, però era di quelle da signori e lì dentro si stava al caldo.
Cataldo, torturando il cappello che si faceva rigirare in mano, continuava a chiedersi che cosa mai avesse fatto. Sì, è vero, non era un grande lavoratore e i risultati dal signor Pierino non erano stati gran che. Però non era mica roba da andare in galera. La Gigia portava via qualcosa tutti i giorni dalla bottega, ma se era per questo avrebbero dovuto chiamare lei. La moglie di Fioravante con le corna? Ma che cosa c’entrava lui con le storie della Romana? E poi se le corna facessero andare in galera… Suo padre non si decideva a morire nonostante Lasagni, ma in fondo non c’è mica obbligo di morire quando lo dice il dottore. Ma che cosa c’entrava lui?…
“Venga,” disse la donna aprendogli una porta.
Cataldo si alzò di scatto con il batticuore.
In fondo alla stanza scura, sotto un quadro enorme, nerissimo, di soggetto indecifrabile, stava seduto dietro una scrivania appena rischiarata da un paralume verde un uomo lungo e magro, con la testa pelata non fosse stato per una dozzina di capelli che sembravano i graffi del rastrello e con un paio di occhialetti senza montatura in bilico sul naso violaceo.
“Si accomodi , – disse – e favorisca i documenti.”
Cataldo porse la carta d’identità.
“Non a me,” disse il naso del Notaio, indicando la donna con il capo.
Questa prese il documento, l’esaminò e fece cenno di sì, che la persona convocata era lui.
“Io non ho fatto niente…” cercò di difendersi Cataldo con una voce che lui stesso quasi non riconobbe.
Laboriosamente il Notaio aprì con un tagliacarte di osso un’enorme busta sigillata a lacca e ne estrasse un fascio di carte. Si schiarì la gola, si tolse gli occhiali, ci alitò sopra e li pulì meticolosamente in un angolo di un fazzoletto che aveva faticato un poco a sbrogliare dalle conseguenze del raffreddore. Controllò che la pulizia fosse come lui desiderava, si rimise gli occhiali, starnutì, si soffiò il naso, si schiarì di nuovo la gola, si risoffiò il naso, evidentemente insoddisfatto del primo risultato, esaminò il fazzoletto scuotendo la testa, ne grattò via con l’unghia qualcosa che non gli aggradava, e finalmente, dopo aver trovato la posizione giusta sulla poltrona, con la voce di chi è afflitto da un raffreddore feroce, iniziò a dar lettura alle carte:
“Carissimo Cataldo, sarai sorpreso nell’apprendere che chi ti scrive è tuo padre, il tuo vero padre. Da morto che sono al momento di questa lettura, mi auguro che, quando conoscerai la verità, vorrai comprendermi e finanche perdonarmi. Ero alla mia prima nomina quale parroco, giovanissimo che ero, e l’incarico capitò a Sant’Anna. Arrivato con il fuoco delle più pie intenzioni verso le anime delle pecorelle di fresco affidatemi, non tardai a rendermi conto dello stato fallimentare in cui versava la parrocchia, se mai una parrocchia può fallire. La vocazione, che credevo fortissima e a prova di ogni tentazione, non aveva mai soffocato il mio genio, permettimi la parola, per gli affari. In poco tempo, sfruttando al meglio i pochi terreni restati di proprietà della parrocchia mettendo in atto coltivazioni moderne e redditizie e con qualche compravendita azzeccata, riuscii a riportare in pareggio le finanze, per poi cominciare a guadagnare tanto da poter restaurare la chiesa, da costruire una canonica nuova e da acquisire nuovi terreni. Purtroppo, però, la carne giovane che pretende attenzione non perdona nei suoi agguati e, quando la natura reclama e comanda, la debole volontà di un povero prete è ben poca cosa. Tra le mie parrocchiane ce n’era una, sposata da poco, che spiccava per la sua assiduità a tutte le funzioni, che io accettavo in confessione anche tre volte la settimana e che era sempre pronta a dare una mano. Bene, il destino (non oso chiamarlo altrimenti) volle che la parrocchiana mi desse ben più e ben altro che una mano e tu sei il frutto della relazione che ne scaturì e che si protrasse per tre anni, fino a quando l’Arcivescovo non mi volle con lui per curargli gli affari della Curia. Nella grande macchina della Chiesa occorrono ingranaggi d’ogni tipo e anch’io, prete fallito, potei trovare la giusta collocazione. Così approfittai degli avvenimenti, lasciai Sant’Anna e feci in modo di non farmi più trovare. Non so come tua madre abbia reagito all’abbandono. Non so neppure se mi abbia cercato. Ciò che so e di cui sono certo è di essere stato un vile, ma la verità è che non ebbi mai il coraggio di farmi vivo di nuovo e di riprendere, magari anche arrivando a togliermi quest’abito che ho continuato a portare indegnamente fino all’ultimo, un rapporto che nel cuore mi pesava tantissimo. Intanto la mia posizione in Curia si faceva sempre più forte, finché, diventato monsignore, fui chiamato niente meno che a Roma. Laggiù le opportunità sono immense, sconfinate, e io le sfruttai per la Chiesa e, e qui entra il testamento che ti riguarda, le sfruttai per me. Negli anni modenesi avevo raggranellato un gruzzoletto più che discreto. Negli anni romani diventai un uomo ricco. Anzi, un uomo ricchissimo. La guerra, poi, moltiplicò a dismisura le possibilità che mi si offrivano e io ne trassi sempre più facile profitto. E di tutto ciò nessuno sapeva nulla né sa nulla al di là di chi ha redatto con me il testamento e ora di te. Comunque, dal punto di vista legale non c’è nulla da eccepire, come ti potrà confermare il notaio che ti sta leggendo questa confessione che tanta pena mi è costato scrivere. Io sono di diritto padrone di tutto il patrimonio che ti lascio per intero e il cui inventario troverai in allegato, un inventario che, al momento della stesura, ha stupito anche me. Quando si accumula non ci si volta mai indietro: ciò che conta non è quanto si è fatto ma quanto si può ancora fare. Non c’è pensiero razionale che ti possa fermare, che ti ammonisca di come un soldo in più nel forziere non faccia differenza.
“Io non so nulla di te. Magari sei un uomo di sostanza, magari sei un professionista, un medico, una avvocato, chissà. Oppure avrai continuato ad essere un servo della gleba come era tua madre il cui ricordo mi attrae e mi respinge ad un tempo. Nella mia viltà non ho mai voluto controllare, non ho mai voluto sapere. Ho cercato nell’ignoranza un’impossibile remissione del peccato. Sia quel che sia, io desidero sperare che queste ricchezze che ti lascio servano a fare tutto il bene che io non ho saputo né, forse, voluto fare. Mi rendo conto di quanto sia comodo e fors’anche spregevole delegare ad altri l’agir bene che non ci è stato proprio, ma solo questo ormai, al limitare estremo della vita, sull’orlo di un abisso senza ritorno, mi resta. Spero pure che queste ricchezze materiali possano servire a tua madre che, tu dirai a buon diritto, in modo su cui molto c’è da obiettare, io ho amato e a cui non ho mai provveduto. Ma le speranze più forti sono riposte nella tua comprensione per la debolezza dell’uomo e, se sarai così grande, nel tuo perdono unito alle tue preghiere per un’anima che di preghiere avrà di certo bisogno più di quanto tu non avrai bisogno del mio denaro. Abbi, comunque, rispetto per chi, non essendo tuo padre di fronte alla natura, del tuo manchevole genitore si è assunto gli oneri, e amalo per quanto merita, se non altro a cagione del suo sacrificio, pur essendone egli con ogni probabilità ignaro. Non posso chiederti, invece, amore per me ma solo pietà. Il resto spetta alla misericordia di dio.”
Il notaio si appoggiò stremato allo schienale della poltrona, starnutì fragorosamente, afferrò al volo gli occhialetti che lo starnuto minacciava di scagliare chissà dove e li posò sulla lettera picchiettata di saliva che era ricaduta sul tavolo.
Cataldo si grattò la testa. “Che cosa vorrebbe dire?” chiese.
“L’ha sentito.”
“Che sono figlio di un prete?”
“Di un monsignore. E’ quanto sta scritto nella lettera. Adesso, se non le dispiace, passerei a leggere il testamento vero e proprio.”
“Mio padre è un prete?”
“Così pare.”
“Morto?”
“Sì.”
“Mi lascia dei soldi?”
“La prego, permetta che legga il testamento.”
Quando Cataldo uscì dallo studio Pacchioni Pellati era un uomo ricco. Ricchissimo, anzi. Eppure tutti quei negozi con i cappotti e gli altri con i prosciutti gli erano vietati. In tasca aveva i soldi contati per riprendere la corriera e non una lira per mangiare qualcosa.
Arrivò a casa che gli altri erano già seduti per cena. Si fa per dire, naturalmente, perché anche quel giorno la Gigia aveva avuto poca fortuna e si era portata a casa una manciata di tonno sott’olio che le era uscito in gran parte da un buco nella tasca.
“Allora?”
“Allora cosa?”
“Che cos’hai combinato? Ti mettono in galera?”
In galera? Si può parlare così al figlio di un monsignore? Cataldo stava muto.
“Allora? Ti sbrighi a dire?” incalzò la nonna, punta più dalla voglia di attaccare la polenta con il tonno che dalla curiosità che pure non era piccola.
Il pomeriggio c’era una corriera sola, verso sera, e Cataldo l’aveva aspettata per delle ore. Lui era sempre Cataldo, però non era più quello di prima. Che effetto fa essere nella pelle di un uomo tanto ricco da non saper valutare le sue ricchezze? Che cosa si può comprare con il denaro? Tutto. Ma è proprio tutto? La Ghirlandina, per esempio, o il Duomo, si possono comperare? E se io entro nel negozio dei prosciutti e chiedo non un etto di prosciutto, non un prosciutto intero o due prosciutti o dieci, ma il negozio, tutto il negozio con il padrone e le commesse, il padrone me lo darà? Avrà la forza di non darmelo? Avrà il diritto di non darmelo? Quanto diritto avrò io di pretenderlo? E la corriera? Posso comperare tutti i biglietti e viaggiare da solo, lasciando gli altri a far la strada a piedi, cambiando continuamente posto perché tutti i posti sono miei?
“Dite o no, babbo?”
“I soldi…” mormorò.
“Vogliono dei soldi? Chi?” La Gigia quasi rovesciò la sua polenta.
“No, no, – corresse Cataldo con un filo di voce arrochita – i soldi ce li danno a noi.”
“A noi? Dai, racconta!”
Cataldo guardò sua madre che ricambiò lo sguardo in maniera interrogativa. Voleva chiederle il permesso di parlare, ma tanto, prima o poi sarebbe saltato fuori tutto. E allora… Così Cataldo raccontò.
“Vacca… Con il prete…” la Gigia era esterrefatta.
“Un terribile segreto per tutti questi anni!” Riuscì ad esclamare la Romana con quel poco di fiato che le uscì.
Cataldo guardava sua madre.
La nonna faceva girare le labbra rugose chiuse sulle gengive sdentate e se le succhiava con un leggero squittio, la fronte aggrottata e gli occhi stretti a richiamare i ricordi: le nozze, l’ingresso in una casa che non era la sua, subito l’incontro con il prete, i discorsi che le faceva lui in confessionale… Alla fine annuì e “oh, ma era un bel prete!” disse.
La Romana non stava più nella pelle; la Gigia pensava che in fondo a lei non importava niente, che non era affar suo e che se quel pastrocchio aveva portato dei soldi come sembrava avesse fatto, era una benedizione del cielo. E Cataldo si grattava la testa.
“Che cosa faccio? – chiese la Gigia più tardi, sotto le lenzuola bagnaticce – Ci vado domani da Venanzio?”
“Mai sei matta? Io Venanzio lo compero…”
“E se fosse tutto uno scherzo? Uno sbaglio?”
“Ma io dico che sei matta! Il Notaio… e poi anche la mamma…”
“Portiamo pazienza ancora un po’ finché ‘sti quattrini non arrivano davvero. Finché non li vediamo. Eh?”
Nel suo letto la nonna si ritrovò vedova del Prete. Del Monsignore, anzi. Suo marito, quello legittimo, non si decideva. O di qua o di là. Ma lui, no: lui stava sul filo del rasoio, con la dentiera quasi nuova nel bicchiere che tanto a lei non andava bene, e non cascava né da una parte né dall’altra. “Sempre attaccata a quel prete,” le diceva allora. “Vado a chiedere perdono per i tuoi peccati,” rispondeva lei, anche se dei grandi peccati, al di là di qualche bottiglia di troppo, lui non ne aveva mai commessi. “E ci si deve lavare tutte le volte che si va a chiedere perdono?” A don Guerrino piacevano lavate.
La Romana si rivoltava tra le coperte. La nonna con un prete… Altro che il romanzo!
Nella stalla il nonno tossiva meno.
Lungo la carreggiata che portava alla strada la Gigia, diretta al lavoro come se niente fosse stato, incrociò la Balilla del signor Pierino che quasi le venne addosso e che, schivando le pozzanghere più insidiose, mucchi di neve, pezzi di un carretto rotto e immondizie varie, si arrestò con una frenata più brusca del solito a dir tanto a un metro dalla porta di casa.
“Fuori! – gridava il signor Pierino tenendo la mano aperta premuta sul clacson – Fuori, pelandrone!”
Con un gesto lento Cataldo aprì la porta e lasciò che questa l’incorniciasse tutto.
“Buon giorno,” disse.
“Buon giorno un corno!”
“Le dispiace portare un po’ di rispetto verso un moribondo e smettere di suonare la tromba?”
“Rispetto? Oh, Cataldo, ma sei matto?”
“Si accomodi in casa.”
“Ma che cosa ti salta in testa? Guarda qua i conti, piuttosto!”
I due entrarono in cucina, Cataldo in silenzio e il signor Pierino strepitando. Cataldo indicò una sedia.
“Sono arrivati i conti del mugnaio! Ho speso più di quanto hai guadagnato! Con quella farina, con un raccolto, si fa a esagerare una pagnotta! Guarda qua! E la stalla! La stalla che fra un po’ la fai cascare giù che neanche le bombe… E l’aia così lercia e piena di robaccia che…”
“Sì, signor Pierino, siamo già d’accordo, – Cataldo era calmissimo: – a luglio toglieremo il disturbo.”
Il signor Pierino tacque improvvisamente.
“C’è altro?” continuò Cataldo.
“Altro? Ma… oh, ma non ti pare abbastanza?”
La porta sbatté e la Balilla svoltò velocissima dietro il letamaio.
Intanto nella stalla i due dottori Lasagni osservavano con stupore il loro paziente che chiedeva dove fosse finita la dentiera. A dispetto della prognosi infausta e della terapia senza le muffe il nonno stava con ogni evidenza riprendendosi e ora reclamava il mezzo per spartire la sua parte di polenta e del bottino giornaliero della Gigia.
“Se ce la fa, bisognerà pur dirglielo,” pensava la nonna.
Di sopra, la Romana fu distratta e frettolosa con Fioravante.
Non tutte le domeniche, ma se era era di domenica pomeriggio, Cataldo faceva un salto all’osteria dietro la bottega di Venanzio. Soldi per il lambrusco non ne aveva di sicuro, ma, per abitudine, Martino gli offriva un bicchiere di spuma e così c’era l’occasione di sedersi a un tavolino a far due chiacchiere.
“Don Guerrino!”
“Il Prete. Sono figlio del Prete.”
“E ti lascia l’eredità?”
“Sembra di sì. Oh, Martino, che non ti venga in mente di dirlo. Io a te te l’ho detto, ma tu, zitto!”
“Zitto, zitto…”
Cataldo dovette tornare a Modena allo studio Pacchioni Pellati dove mise la croce sull’infinità di documenti che il notaio gli sottoponeva e di cui lui non capiva nulla. La Romana che lo aveva accompagnato faceva cenno di sì con la testa: lei aveva seguito la lettura e andava tutto bene. Risultò che soldi ce n’erano, ma non poi tantissimi o, almeno, non tantissimi se li si paragonava alle proprietà immobiliari: case a Modena e a Roma e terreni e tenute nell’Agro Pontino bonificato e in Cicociaria. Ma anche a Sant’Anna c’era qualcosa. Prima di mettere le mani su quella fortuna bisognava pagare le tasse di successione, però, e queste erano care, essendo il defunto de cuius hereditate agitur estraneo ad ogni grado di parentela. Denaro da anticipare Cataldo non ne aveva e questo era certo, i calcoli erano complessi, un po’ lunghi, occorrevano i certificati dei vari uffici catastali, le stime dei periti e chissà quali altri scartafacci di cui Cataldo non volle nemmeno sapere. “Faccia lei,” aveva detto al notaio. E il notaio fece.
Intanto a Sant’Anna era arrivato il nuovo parroco. Don Ercole doveva aver superato da poco la trentina, magro, un po’ curvo, pallidissimo, con i capelli ricci, radi, un po’ unti, e le borse sotto gli occhi. Faceva odore di sudore anche adesso che era inverno. Veniva da via e parlava con delle parole forestiere. La Romana non era mai stata particolarmente assidua alle funzioni. A dire il vero non ci andava mai. Però adesso sentiva che il destino le stava parlando. Anche lei come sua nonna: un amore senza speranza con un prete! Così non si perdeva una messa, un vespro, un rosario. E poi si confessava tutti i sabati, mollando la briglia della fantasia e raccontando di peccati bizzarri che lasciavano ammutolito don Ercole il quale usciva barcollando dal confessionale. Sempre inginocchiata al banco di prima fila, Romana si beveva ogni parola: ‘Pane de celo prestri tristri ei. Oremus tes, pilògamo sacramenta pilati. Passione tua prisi quisti prise quèsumus. Ìtalos cordis et sànguinis meus…’ Così diceva don Ercole, e come lo diceva! In mezzo a tutte quelle donne, loro due erano soli. Solo a lei lo diceva e lo diceva in latino… Fioravante, è vero, aveva una certa innegabile eleganza: il dente d’oro, il cotone nell’orecchio, ma don Ercole… Ercole… Quello era un amore puro sul serio! Quello era un uomo con cui avere un figlio segreto! Come la nonna.
Il nonno ormai si era ripreso, l’inverno stava cedendo ad un’aria un po’ meno cattiva e così lo trasferirono di nuovo in casa. Aveva anche recuperato la dentiera, e l’appetito, in verità mai morto del tutto, era tornato quello di sempre. A ricordo della malattia restava solo la calza rosa e grigia che teneva ostinatamente piantata sulla testa. Lui era guarito, era tornato in casa, aveva ripreso la solita vita, però era evidente che c’era qualcosa di diverso. Nessuno gli diceva niente, ma c’era qualcosa di diverso. Cataldo guardava la Gigia che ricambiava l’occhiata, così la nonna e la Romana, la Romana e Cataldo e tutti gl’incroci possibili. Tutti tranne quelli con lui. Gli sembrava anche di trovare qualcosina di più da mangiare.
Si era ormai a metà marzo quando arrivò la notizia che Cataldo poteva prendere possesso di tutto il denaro. “E’ naturale che la cifra non sia più quella iniziale, – gli aveva spiegato Pacchioni Pellati: – ci sono le spese che si sono anticipate e su cui si sono pagati gl’interessi, le tasse.. eh, poi vedrà il resto!” “Vedrete il resto…” aveva confermato la Romana.
“Da dove viene ‘sto prosciutto?” Il nonno proprio non ci capiva più nulla.
“Oh, nonno, basta: è ora che lo sappiate,” disse la Romana guardando dritto gli altri.
“Sappiate che cosa?”
“Che il monsignore del babbo ci ha lasciato tutto.”
“Quale monsignore?”
“Quello del babbo, ve l’ho detto.”
Il nonno si aggiustò la calza sulla testa. “Mah, io non capisco mica quello che dici. Da quando sono guarito mi sembra che siate diventati tutti matti: vi guardate, mangiate il prosciutto, me ne date anche a me, questo qua adesso ha un monsignore… Spiegatemi mo’!”
Silenzio. Nessuno voleva cominciare. Poi attaccarono a parlare tutti e quattro insieme. Tacquero. Si guardarono, finché gli sguardi caddero tutti sulla nonna.
“Oh, beh, allora te lo spiego io. Sapete quando mi lavavo per andare dal Prete? Ecco che è nato Cataldo!”
Il nonno si riaggiustò la calza che non voleva stare a posto, guardò a uno a uno i quattro, si pulì un orecchio con il mignolo, prese distrattamente un po’ di polenta che era rimasta sul tagliere e se la ficcò in bocca.
“Non me l’hai spiegato bene,” disse.
“Più di così,” allargò le braccia la nonna guardando gli altri che annuivano.
“C’entra la lavatura con Cataldo?”
“C’entra sì.”
“E’ figlio del Prete?”
“Ma ve l’ho detto!”
“Hai fatto quella roba lì?”
“Ma non è mica peccato! Oh, i preti hanno fatto voto di castità, lo sapete o no? Diglielo, Romana!”
“Sì, nonno, dovreste saperlo.”
“Beh, insomma, babbo… babbo, sì… insomma lo sanno tutti che i preti hanno fatto voto di castità. Sennò perché avrebbero la sottana?”
“Allora io non sono il padre di questo qui e sono contento?”
“Ma sì, nonno: è logico.”
“L’avete capita, finalmente? – sospirò la nonna – Siete ben duro di testa!”
“E poi, nonno, secondo voi, dov’è che ci sarebbe da essere contenti a essere il babbo del babbo?”
“E il prosciutto?”
Allora, accavallando le spiegazioni, i quattro resero edotto anche il nonno della piega che aveva preso la loro vita.
“Ma c’entro anch’io, è vero?, anche se io e il Prete…” si era accertato il nonno.
“Sì, sì, anche voi,” l’aveva rassicurato Cataldo, nonostante la nonna che aveva alzato le spalle.
Domenica pomeriggio Martino e Cataldo s’incontrarono sulla strada verso l’osteria.
“Stavolta te la pago io la spuma,” disse Cataldo.
“Sono arrivati?”
“Sì, e non so neanche io quanti sono.”
La proprietà immobiliare di Sant’Anna era il cosiddetto Villino Maffei, una costruzione liberty, completamente risparmiata dalla guerra, con trifore e torrette costruita da un tale che aveva fatto fortuna in Libia ed era morto per aver familiarizzato troppo con la popolazione femminile della Colonia. Il Monsignore l’aveva acquistata da un erede per il classico tozzo di pane ed ora la famiglia di Cataldo vi si trasferì, lasciando il signor Pierino senza parole come padrone e ritrovandoselo come vicino di casa.
La Romana organizzò un ricevimento come quello della padrona della ditta di profumi del romanzo. Che poi lei avrebbe voluto prendersi l’uomo dell’amore puro con la dattilografa. Ma lasciamo perdere.
Cataldo e il nonno erano in gilè, giacca e cravatta con l’elastico, la Gigia aveva un vestito fatto su misura come la nonna che, però, aveva voluto aggiungere le frappe e un po’ più di scollatura, e la Romana era inguainata in un abito rosso da cui rischiavano di esplodere le sue rotondità.
“Non avrai mica detto a Martino…” sibilò la Gigia controllando il fior d’invitati che entravano.
Martino era arrivato fin quasi alla porta. Poi aveva visto la faccia di Cataldo che l’aveva guardato per mezzo istante ed era tornato indietro.
C’era la figlia del farmacista con cui la Romana non aveva mai scambiato una parola. “Non so se avete letto ‘Vento d’amore’, ma anche lì c’è una festa dove si mangia che si crepa…”
C’era la Marisina con cui aveva fatto un pezzo di scuole elementari. “Sì, abbiamo il gabinetto in casa. Uno non ci crede che va a farla quasi in cucina…”
C’era la figlia del dottor Lasagni. “Di sicuro avrete fatto il bagno nella vasca anche voi. Dopo un po’ viene a noia, è vero?…”
Il signor Pierino era stato invitato ma non si era fatto vedere. C’erano, però, il maresciallo dei carabinieri, il signor Venanzio, il ragionier Costanzini della banca e, verso la fine, arrivò anche don Ercole a portare la sua benedizione. Fioravante era passato in motocicletta, aveva rallentato ma non si era fermato.
E così la famiglia Venturelli entrò in società.
Finalmente arrivarono anche i documenti delle proprietà intorno a Roma e di quelle a Modena e dintorni.
“Io le consiglio di affidarne la gestione a qualcuno di sua fiducia, – aveva detto il Notaio – e non dubito che lei abbia qualcuno in mente.”
“Eh, ce n’è… – aveva risposto Cataldo – ce n’è che ho in mente…”
“In questo caso non sarebbe male se già da domani la persona che lei sceglierà potesse iniziare a prendersi cura di tutto. Sa, le proprietà sono tante, qualche situazione è complessa e…”
“Domani. Sì, sì.”
Ma l’indomani non c’era nessuno e così il Notaio, a dir suo a malincuore, cominciò a disporre personalmente in cambio di un onorario di cui avrebbero parlato in seguito ma su cui si sarebbero senz’altro accordati.
Cataldo comprò una macchina, un’Isotta Fraschini Monterosa, con relativo autista, visto che nessuno in famiglia era capace di guidarla. Quando c’era da andare dal Notaio si andava in automobile, quando la Gigia, ora signora Remigia, andava da Venanzio a fare la spesa andava in auto, quando la Romana andava a messa l’autista le spalancava la porta davanti alla chiesa e restava fuori in attesa del ritorno, e persino i nonni andavano a spasso in automobile.
In casa, al villino, c’erano la serva che veniva dalla montagna e Firmato, il cuoco che si era licenziato dalla locanda di Ponte Saliceto per accettare lo stipendio stravagante dei Signori. Tutti i mercoledì venivano a cena le persone che contano e mangiavano come se avessero aspettato solo quel giorno lì. A cena finita e a ospiti partiti il nonno, di nascosto dalla Romana, pigliava le cicche dal portacenere. “Neanche uno che fumi le Alfa…”
Fioravante non si vedeva più, e questo era un regalo del cielo, ma in compenso non passava giorno che non venissero a far visita, uno o l’altro, Lasagni piccolo, Costanzini piccolo e tutti gli altri figli in un raggio di almeno venti chilometri da Sant’Anna. Qualche volta passava anche don Ercole. Il nonno e la nonna si erano fatti fare la dentiera uguale e, così, alle visite giornaliere si era unito anche il figlio del dentista che veniva in Topolino da Modena apposta.
Quasi ogni giorno la Romana leggeva le lettere che arrivavano dalle proprietà nell’Agro Pontino spedite dai vari fattori che spiegavano come impellesse questo o quel lavoro, come la mano d’opera non fosse sufficiente, come occorressero macchine agricole moderne. E poi c’erano gli amministratori dei palazzi di Roma e di Modena: i danni della guerra erano ancora in gran parte da riparare e… Insomma, almeno una volta la settimana Cataldo, o meglio, il signor Venturelli, arrivava a Modena allo studio Pacchioni Pellati dove la segretaria gli prendeva il cappello e lo faceva accomodare subito nella stanza del notaio, e qui, una croce dopo l’altra, dava fondo al conto che aveva costituito alla banca del ragionier Costanzini. Rendite dalle campagne non ne arrivavano.
“Non si potrà fare altrimenti, – gli disse il notaio: – bisognerà alienare il podere di Santa Priora in Ciociaria se vogliamo finanziare i lavori degli altri poderi nel Lazio. E anche il palazzo di Via dei Servi a Modena sarebbe bene che…”
“Alienare vuol dire che li dobbiamo vendere, vero?” chiese Venanzio.
“Sì, vendere.”
“E i soldi?”
“Come le ho detto, i soldi servono per gli altri poderi, per i restauri, per pagare gli amministratori, i professionisti, la manodopera… Un patrimonio del genere richiede investimenti continui. Ogni giorno ci sono forzatamente delle spese da affrontare. Ma prima che se ne vada restano da vedere due o tre problemini legali che sarebbe opportuno discutere anche con l’avvocato…”
Magari il signor Pierino non aveva tutti i torti. Se il Lazio non fosse stato così terribilmente lontano che anche la Romana aveva difficoltà a spiegare dov’era, Cataldo sarebbe andato fin là a vedere che cosa combinassero mai quei fattori che, a quanto era dato intuire, sapevano fare solo le sanguisughe. E poi c’era il Notaio da pagare, il Notaio che si portava via un pezzettino ogni volta che si vendeva qualcosa. Ritornando a casa sprofondato sul sedile posteriore di cuoio dell’Isotta Fraschini, a Cataldo venne in mente che il mondo era ben strano e che chi l’aveva fatto doveva essere un bel tipo, uno che ne sapeva una più del diavolo su come si prende in giro la povera gente. Ma come! Un povero cristo passa la sua vita nella miseria più nera, senza aver mai visto com’è fatta una carta da mille, senza sapere come fare a scaldarsi le ossa, aspettando che torni la Gigia, ora Remigia, con una saracca nascosta nelle mutande quando andava grassa, con il signor Pierino che ha tutto il diritto di sbattere lui e gli altri fuori dalla catapecchia in cui, bene o male, almeno non piove e poi, improvvisamente, bum! ti salta addosso la fortuna più inverosimile che neanche nel libro che ha letto la Romana c’è una roba del genere: un padre monsignore ricco da far schifo e per di più morto. E allora diventi ricco schifoso anche tu, vai ad abitare al Villino Maffei dove ti tocca di fare il bagno anche d’inverno perché al mercoledì vengono gli ospiti a vuotarti la cucina e se puzzi troppo c’è rischio che gli vada via l’appetito. Ti metti la cravatta d’argento con l’elastico e diventi culo e camicia con il farmacista, con il ragioniere della banca, con il dottore, con il maresciallo, con il sindaco e il segretario comunale, li ingozzi con il prosciutto di Venanzio, pagato, e parli di politica che non capisci neanche metà di quello che dicono. Il Prete che te lo trovi sempre in casa perché magari si sente un po’ parente. Se vedi da lontano Martino ti viene in mente d’improvviso che devi fare una cosa da un’altra parte per via della Remigia. Se ti scappa una scoreggia quando c’è qualcuno d’importante la Romana arrossisce e dice ‘scusate l’ano’. Poi si deve parlare in italiano perché chi ha studiato sa solo quello. Poi una sera via all’operetta con la famiglia del vice-sindaco, nel palco dove dopo un po’ lui e il nonno russavano, e il nonno aveva addirittura appoggiata la dentiera sulla balaustra ed era cascata di sotto, e la Romana aveva pianto perché si era tanto vergognata. E le proprietà da alienare che in italiano vuol dire che le devi vendere e non vedi un soldo, e i lavori nei poderi e i fattori che non ti rubano mica una tascata di tonno e le parcelle di mille sconosciuti che nessuno capisce che cosa facciano e il Notaio che ti fa leggere i documenti ma, tanto, per te è tutto uguale perché di quelle cose lì non te ne intendi. Magari sarà che non c’è ancora l’abitudine a fare i signori…
Varcato il cancello, all’automobile si fece incontro la Gigia, che adesso aveva i capelli gialli, di corsa nonostante i chili che aveva messo su. “Cataldo! – gridò sottovoce – Cataldo, c’è un nobile! C’è un nobile in salotto!” e gli sventolò sotto il naso un biglietto da visita grande come una cartolina con uno stemma nobiliare e una sfilza di nomi che, ovviamente, in mancanza della Romana restavano un mistero.
Come Cataldo comparve sulla soglia del salotto, l’ometto seduto in poltrona scattò in piedi e s’inchinò. Il vestito nero, il gilè grigio perla, la cravatta lucida celeste su cui spiccava un brillante, le scarpe di vernice.
“Conte Uguccione Pùlega. Pùlega, non altrimenti: l’accento va sulla u.”
“Buongiorno.”
“Il nome intero sarebbe conte Uguccione Maria Tebaldo Pùlega Zenzeroni Filippi Scotti Maresca Leonelli di Castelcrostino ma, naturalmente, conte Uguccione Pùlega basterà,” l’ometto sorrise.
In altri tempi Cataldo si sarebbe fermato lungo la strada del ritorno da Modena e si sarebbe liberato senza rimorso dei bisogni corporali che lo gravavano. Nella condizione attuale, però, occorreva arrivare a casa e fare lì. Quel tipo lì fra capo e collo non ci voleva proprio.
“Lei si chiederà il motivo della mia visita non annunciata e, mi auguro, non troppo importuna,” continuò il visitatore.
“Mm,” rispose Cataldo che aveva deciso di contenere al minimo i suoi tempi d’intervento.
“Vede, signore, la mia famiglia risale ai tempi del Sacro Romano Impero e da allora, di generazione in generazione, ci tramandiamo un archivio che si arricchisce continuamente: manoscritti d’ogni sorta, atti notarili, scambi epistolari che da secoli, molti secoli, intratteniamo con la crema della nobiltà europea. Europea ma non solo: non mancano, infatti, rapporti con l’imperatore del Catai e del Cipango, della Persia e della Nubia e, più recentemente, assai più recentemente, – e qui uno sguardo d’intesa con Cataldo – con la nobiltà del cosiddetto Nuovo Mondo. Condizione per entrare nel nostro archivio, l’avrà capito, è la nobiltà, no-bil-tà: ogni documento deve essere incentrato su di un nobile o, comunque, su affari che concernano una famiglia nobile. L’eccezione può essere costituita da alti prelati d’origine, perdoni la parola, plebea, ma che si siano illustrati per le loro gesta.” L’uomo s’interruppe e cominciò a sedersi lentamente sulla poltrona, costringendo con lo sguardo il pur riluttante interlocutore a fare altrettanto. I due si fronteggiavano in silenzio. Il tempo non scorreva a favore di Cataldo e lo sciacquio della pioggia che aveva cominciato a cadere violentemente e che colava dalle grondaie eccitava la fisiologia.
“Bene, – riprese finalmente il visitatore – attratto dalla sua vicenda che presto si è risaputa negli ambienti romani, non meno che dalla sua personalità, mi venne l’uzzolo di ricercare notizie sulle sue radici nell’archivio di cui le ho detto e me ne presi la libertà e il piacere. Credo di essere nel giusto se affermo che lei non può non essersi avveduto della nobiltà del sangue che le scorre nelle vene e che ora io sono qui a confermarle, seppure in via ufficiosa. Naturalmente, – e qui il Conte si sporse in avanti, facendo scemare la voce in un bisbiglio e chiamando a sé con la mano Cataldo che non poté esimersi dallo sporgersi a sua volta – non parlo dei Venturelli, il cui sangue, si sa, lei non condivide. I Salami! – gridò Pùlega gettandosi indietro e cacciando da sé Cataldo – I Salami… Monsignor Guerrino Salami compare à bon droit nell’archivio in tutta la gloria dei suoi antenati. Sissignore.” E qui un altro silenzio che pareva non finire mai. Ancora un altro minuto e Cataldo non ce l’avrebbe fatta.
“Salami, – riprese il Conte – lei lo ha già colto, altro non è se non la naturale corruzione italiana di… di… lo dica un po’… – Cataldo stava letteralmente morendo e ormai si dimenava senza ritegno sulla poltrona – ma certo! Come lei ha correttamente intuito, Salami è la corruzione dell’arabo salaam!” e qui il Conte afferrò strette le mani di Cataldo che, vistosi imprigionato a tradimento, decise che quella era casa sua e che a casa sua lui faceva ciò che gli pareva. Allora si alzò di scatto, diede uno strattone che fece finire Pùlega in ginocchio e scappò in bagno.
Dopo un minuto Cataldo e il Conte sedevano di nuovo uno di fronte all’altro.
“Le chiedo perdono se mi sono fatto prendere dall’entusiasmo. Salami: salaam, dicevamo, che, lei lo sa bene, in arabo significa pace. Il perché di questo soprannome assurto poi a cognominazione patronimica è presto detto. Durante la Prima Crociata un cavaliere di Padullo nella subregione dei Friniati, allora conosciuto come cavalier Trullino della Romella e di cui s’ignorano le origini, era al seguito di Daimberto, vescovo di Pisa, a sua volta al seguito di Boemondo che, lei non l’ignora, si recò insieme con Baldovino da Edessa, nella Mesopotamia nord occidentale, a Gerusalemme per il famoso voto dei Crociati. Come ricorderà, tra quei personaggi successe un po’ di tutto: discordie, discordie! e fu Trullino, non la voglio annoiare raccontandole come, a riportare la pace, appunto salaam. Da qui… Da qui… – Cataldo non capiva – da qui Salami, appunto. Trullino fu investito del marchesato di Rocca Sozza, Sozza come corruzione di ‘sotto’, da Papa Pasquale II nel 1101 e il documento è qui a provarlo – e sollevò una borsa di pelle marrone che stava appoggiata di fianco alla poltrona. – Ma non è finita. Il marchese Trullino Salami della Romella di Rocca Sozza tornò in Italia nel 1107 e prese di fatto possesso del feudo assegnatogli, appunto in quel di Rocca Sozza, dove si unì in matrimonio con Finimonda di Calabria, ultima contessa di Bovalino ed erede di un feudo sconfinato di cui abbiamo qui, nella borsa, esauriente documentazione. Da allora, pur vessati da mille traversie: confische, guerre perdute, imprese navali sciagurate, ma anche premiati da giusta fortuna: riacquisizioni, investiture imperiali e papali, matrimoni oculati, alleanze ben pensate, i Salami hanno per secoli brillato di luce propria. Fu solo con le deprecabili conseguenze della Rivoluzione Francese di cui, ahimè, ancora paghiamo il tristo debito – e qui il conte Pùlega si alzò ed abbracciò Cataldo il quale si alzò a sua volta ricambiando l’abbraccio – che i Salami della Romella, marchesi di Rocca Sozza e signori di Bovalino, il titolo di conte non essendo nella fattispecie malauguratamente trasmissibile per via femminile, smarrirono il contatto non solo con il loro titolo, che pur resta imperituro, ma con il loro patrimonio confiscato dai biechi Napoleonici, confisca poi confermata dal Regno delle Due Sicilie.”
Ci fu un lungo silenzio, durante il quale Cataldo vide nella porta socchiusa le teste del nonno, della nonna, della Gigia e della Romana.
“Che ne dice?” riprese il Conte.
“Mah…”
“So bene a che cosa pensa: alle egregie cose, ai secoli di gloria, alla luce della nobiltà, al fulgore delle imprese che resteranno perennemente scritte nel granito della storia e nel bronzo dei cannoni. E paragona tutto ciò ad un presente grigio di… esito a pronunciare la parola… di uguaglianza, che non rende giustizia al passato, alla nobiltà degli animi e delle radici. Ma si rincuori, Marchese, sì perché lei è tale, si rincuori e si riabbia, Marchese, e si riappropri a buon diritto di ciò che il destino e gli uomini le hanno sottratto. Io sono al suo fianco.”
Prima figlio di un prete e poi marchese. Cataldo si grattò la testa.
“Io ora debbo andare, – riprese il Conte – ché raddrizzare altri torti è la missione per cui fui partorito. Prima, però, mi consenta di lasciarle in dono le insegne di famiglia, – e cavò dalla borsa una cartella di cartoncino che aprì, rivelando uno stemma tracciato a pastello – e copia del riassunto delle vicende che in poche, inadeguate, commosse parole le ho narrato, – e dalla stessa borsa estrasse un fascicolo di fogli protocollo battuti a macchina. – Il mio indirizzo è nella mani graziosissime della signora Marchesa e, comunque, è ripetuto in calce alle noterelle. Mi consideri a sua disposizione. Viva la nobiltà!” L’ometto si alzò, s’inchinò, afferrò la borsa di pelle marrone ed uscì, allontanandosi a piedi sulla strada verso Modena, evitando per quanto poteva le pozzanghere.
Cataldo si grattò ancora la testa.
“Che cosa gratti?” gridò la Gigia balzando dalla porta.
“Date qua!” strillò la Romana strappando cartella e fascicolo dalla mano di Cataldo.
“Hai capito cos’ha detto? – gridò ancora la Gigia e non poté trattenersi dal guardarsi le mani graziosissime della Marchesa. – Vacca, che mani…” sussurrò.
“Ve’ che roba…” mormorò la Romana, restando a bocca aperta davanti alle armi dei Salami.
Intanto erano arrivati anche il nonno e la nonna che cominciarono a strepitare coinvolgendo nel baccano anche la Gigia e la Romana.
“Zitti! – la voce di Cataldo tacitò d’un colpo le altre. – Facciamo dire alla Romana.”
La Romana sfogliava in fretta, avanti e indietro, il fascicolo. Tutti si misero in silenzio ad aspettare il primo responso. La Gigia sbirciava lo stemma e le mani.
Finalmente la Romana parlò: “Intanto dico subito che questa roba qui l’ha scritta una dattilografa.” Tutti si guardarono annuendo.
“E poi?” azzardò la nonna.
“E poi bisogna che io legga tutto per bene.”
Inaspettato, nel pomeriggio che si era fatto di nuovo assolato, arrivò Fioravante. Non rombando come una volta, ma con il motore che nelle ultime centinaia di metri venne tenuto al minimo. La Romana era seduta sotto il pergolato, intenta a leggere gli appunti del Conte, il dito che seguiva ogni parola.
“Romana!” bisbigliò dal cancello Fioravante. Ma lei, che pure lo aveva visto, continuava a fingersi immersa nella lettura.
“Romana!” tentò lui più forte.
Ma quale Romana!: lei era la Marchesina! Era tutto lì, nero su bianco, scritto da una dattilografa che chissà quante ne aveva passate anche lei. Certo Fioravante non poteva saperne niente, ma sentirsi chiamare così, dalla strada, da uno a cavalcioni di una motocicletta… va be’ il dente d’oro, va be’ il batuffolo nell’orecchio, ma la nobiltà è un’altra cosa! Al decimo tentativo infruttuoso Fioravante ripartì, tenendosi la sua scatola di cioccolatini con la ciliegia sotto la camicia.
“Allora? Viene o non viene la Romana?”
La sera, intorno al tavolo, i quattro aspettavano le conclusioni, ma lei non si decideva a scendere. Finalmente apparve sulla soglia, pallida di cipria e con il fascicolo in mano. Lei. Immobile. Con un boa di struzzo. Tutti tacquero, le bocche pronte a ripetere in silenzio ogni parola che dovesse essere proferita dalle labbra della Romana. Allora si sedette al suo posto e parlò: “Ho letto. Ho letto tutto e certe cose le ho lette due volte. C’è tutto, è tutto scritto: siamo nobili.” La lacrima che le sgorgò dal ciglio fu solo la prima a precedere il pianto dirotto suo, della Gigia e della nonna che non se l’aspettava ma che non voleva restare indietro. Dopotutto era partito tutto da lei. Il nonno mormorò solo “io no, vero?” e Cataldo si grattò la testa.
“Ve’ mo’, – disse finalmente la nonna – io avevo visto lungo. Altro che don Guerrino! Quello lì era un marchese con tutto il suo bel marchesato!”
“Adesso, però, viene il difficile. – La Romana assunse un tono ancora più grave. – Sembra che non sia tutto così liscio.”
“Di su.”
“Dai fogli non è chiaro. Sembra, però, che ci siano delle difficoltà.”
“Quali?”
“Ma se vi ho detto che non è chiaro!”
“Ma non l’ha scritto una dattilografa?”
“Ma che cosa c’entra? Bisogna sentire dal Conte.”
“E se lasciassimo stare tutto…” azzardò Cataldo.
“Io dico che questo è matto!” strillò la Gigia.
“Con quello che ho dovuto fare io con il Monsignore…” disse la nonna gettando le braccia al cielo.
“Babbo, ma avete capito che cos’è anche solo il feudo in Calabria?”
“In Calabria… più in là di Roma?”
“Eh, quando siete a Roma ce n’è ancora…”
“Se chiedessimo al Notaio?” propose timidamente Cataldo.
“Beh…”
“Sì, – disse la Gigia – mi sembra che potremmo chiedere al Notaio.”
Così il mattino dopo si erano stipati tutti nella Monterosa ed erano andati allo studio. Quattro stavano davanti al tavolo con la luce verde, il nonno era seduto più indietro.
Il dottor Pacchioni Pellati si prese almeno un quarto d’ora per esaminare il documento dattiloscritto. Volle controllare anche le insegne nobiliari. “Salami…” mormorava ogni tanto. Poi “eh, beh, certo che se è così…” oppure “il conte Pùlega…” Girato l’ultimo foglio, il notaio si tolse gli occhialetti e si sfregò accuratamente gli occhi, togliendosi con l’unghia del mignolo ogni minima crosticina. Si prese la testa tra le mani e se la diresse verso un angolo in alto che fissò a lungo. I quattro si guardavano di sottecchi e il nonno, più indietro, si tolse la dentiera e prese ad esaminarla meditativamente.
“Carta canta… – disse inaspettatamente il Notaio, rompendo un silenzio che durava da un po’ – carta canta ma un occhio esperto scorge già più d’una difficoltà. Occorrerà far riconoscere la continuità dinastica e questo è già un bel problema. Monsignor Salami era un prelato e non è così scontato che la sua eventuale prole… Non si offenda, signor Venturelli, ma lei lo sa, lei è un bastardo… – La nonna annuì vigorosamente, e il nonno si rimise la dentiera in bocca sbattendo un paio di volte i denti per collaudarne la posizione. – Poi bisognerà controllare come stanno le cose in Calabria, essendo il feudo di Rocca Sozza perduto e irrecuperabile, almeno da quanto risulta qui. Per la Calabria… i Napoleonici facevano le cose per bene, almeno dal punto di vista legale, e le confische… I Borboni preoccupano meno. Ma poi, che cosa accadde poi? Non ci è dato saperlo. Occorre documentarsi… E se, dico così per dire, monsignor Salami avesse avuto altri figli?”
“Brutto maiale!” scappò alla nonna.
“No, no: è tutt’altro che semplice. Io credo che la cosa più saggia da fare sia d’interpellare il conte Pùlega,” concluse il notaio con gli occhi fissi sull’angolo alto di fronte a lui.
“Siamo ancora marchesi?” chiese la Gigia quando uscirono sulla strada.
Cataldo guardò la Romana.
“Si capisce,” sentenziò lei.
Il Villino Maffei non bastava più. Eh, no, non poteva più bastare per dei marchesi… Il vecchio castello appena sopra Monte Gaiano, tre chilometri al massimo da Sant’Anna, era disabitato da ben prima dello scoppio della guerra e il proprietario risiedeva ormai stabilmente sulla Riviera Ligure.
“Costi quel che costi?” aveva chiesto il notaio.
Cataldo aveva guardato la Romana e la Gigia, le quali avevano annuito con occhi di fuoco.
“Sì,” aveva risposto Cataldo.
Così i Marchesi si trasferirono e divennero i castellani di Monte Gaiano.
“Ah, Marchese, mi permetta di complimentarmi con lei su due fronti: mi si riferisce che la Marchesina le abbia insegnato a firmare, il che migliora vieppiù la sua cultura così particolare, e poi il castello, ah il castello è veramente consono al suo stato! – Il conte Pùlega, ospite nella camera azzurra, aveva indossato lo smoking per cena. – Ma lei vorrà sapere del feudo…”
Cataldo, in una giacca da camera di seta viola marezzata con le iniziali sul taschino da cui usciva un fazzoletto bianco a triangolo, con i piedi calzati in un paio di babbucce dalla punta in su e con la retina per capelli in testa, guardava l’ospite senza parlare.
“…O preferisce rimandare a più tardi…”
“No, no, dica adesso.”
“Beh, come le avevo accennato per lettera e come le aveva anticipato il dottor Pacchioni Pellati, gli ostacoli sono ardui e numerosi ma, a parer nostro, superabili. Occorre istruire un processo nel quale le autorità vaticane avranno la loro parte, poi ci sono gli occupanti, noi sosteniamo abusivi, dei fondi calabresi che, naturalmente, faranno opposizione. Anche dal sindaco di Bovalino ci aspettiamo guerra ma, la Storia ce lo insegna, Bovalino è dei Salami e contro la forza della verità documentale che cosa mai potrà un sindaco borghese o, mi consenta ma potremmo arrivare anche a questo, magari del quarto stato? Alla fine, lo vedrà, trionferemo. Lotteremo e trionferemo!”
“Soldi?”
“Come dice?”
“Sì, dico, c’è da pagare qualcosa?”
“Oh, Marchese, ma queste sono quisquilie! Qualche decina di milioni, qualche centinaio al più e poi… e poi… ah, la nobiltà restaurata!”
Il Conte fu accompagnato dall’autista alla stazione di Modena con un cospicuo anticipo sulle spese in borsa e con una patente di plenipotenziario nell’affare.
Per la seconda volta, quella notte Cataldo non aveva chiuso occhio: si era alzato e aveva incrociato il nonno che passeggiava per i corridoi con la calza in testa. La luna illuminava le ultime colline e dove incominciava la pianura si vedeva la casa di Martino.
“Sì, Marchese, a quanto si desume dalla lettera del Ministero delle Finanze pare che siano stati evasi tributi per un ammontare rilevante. Qui dice trentacinque milioni e spiccioli.” L’avvocato Sgonfiotti osservava Cataldo con un paio d’occhi che sembravano presi a prestito da un bue.
“Ma come, Avvocato, – protestò Cataldo – come può essere? Il Notaio ha sempre fatto lui…”
“Firmi qui e controlleremo.”
In meno di cinque minuti Cataldo appose la sua firma a un foglio che il legale aveva fatto scivolare sulla scrivania evitando altre carte, un calamaio, libri sparsi aperti e chiusi, un tampone di carta asciugante e altri oggetti variamente sparpagliati.
“Ah, Marchese, – fece quasi distrattamente Sgonfiotti quando Cataldo era già sulla porta – ci sarebbe da versare un anticipo per le spese.”
“Un anticipo?”
“Sì, per le spese. I bolli, la posta, i depositi, il ricorso… Le solite cose. Faccia pure con comodo con la segretaria.”
Cataldo non volle essere accompagnato in auto. Andò a piedi allo studio notarile, entrò e non diede il cappello alla signorina.
“Vede, Marchese, – spiegò con calma Pacchioni Pellati tirando fuori da un armadio un raccoglitore di cartone grigio legato con tre nastri grigi – vede: qui è tutto documentato, tutto regolarmente firmato da lei, come potrà constatare. Qui tutto ciò che si fa è per suo ordine espresso.”
Cataldo si trovò davanti centinaia di scartoffie con timbri, bolli, firme e croci.
“Controlli, controlli…” e il notaio allontanò un poco la poltrona dalla scrivania, fissando il suo angolo preferito e rifilandosi l’interno delle narici con l’unghia del mignolo.
Che cosa controllare? Tutta quella roba era arabo, arabo come salaam. Uno ad uno tutti i fogli furono passati in rassegna, così, tanto per non far pensare di essere venuto per niente. Che cosa ci sarà nell’angolo in alto?
Non volle tornare subito al castello. Disse all’autista di aspettarlo lì.
Lungo le strade di Modena c’erano i negozi, decine, centinaia di negozi con le vetrine piene. Cataldo avrebbe potuto comperare tutto. Forse. In Piazza Grande era giorno di mercato del bestiame. La gente vociava, i venditori si sbracciavano ad illustrare i pregi e le bellezze delle vacche, i compratori scuotevano la testa finché le mani non venivano strette e i sensali le dividevano con la mano come un coltello. Martino rideva con uno sconosciuto.
Bisognava tornare in fretta a Monte Gaiano, però. Era il compleanno della Marchesina e “babbo, ricordatevi che c’è la festa,” si era raccomandata lei.
Se quella precedente era stata la seconda notte passata in bianco, l’altra era stata un paio di settimane prima.
Nel corso della visita allo studio durante la quale i quattro caseggiati di Via Nomentana erano stati alienati, “e così con Roma abbiamo finito,” il notaio gli aveva riferito che il vecchio proprietario del castello, quel tale della Liguria, aveva chiesto per suo tramite un appuntamento con il signor Marchese e lui si era preso la licenza di darglielo presso lo studio il venerdì seguente. “Tanto venerdì ci si sarebbe dovuti vedere in ogni modo.”
L’uomo, vestito completamente di bianco, dimostrava una settantina d’anni ben portati, robusto senza essere corpulento, canuto di capelli e di barba, con gli occhi azzurri che spiccavano sull’abbronzatura.
“Come le avrà detto il dottor Pacchioni Pellati, io sono l’ingegner Gaspare Stampa da cui lei ebbe ad acquistare il castello di Monte Gaiano,” e tese la mano a Cataldo che in quelle occasioni, da un po’ di tempo così frequenti, era particolarmente in imbarazzo.
“Contento,” farfugliò.
“Il piacere e l’onore sono miei. Io sono un uomo pratico e verrò subito al dunque, immaginando che neppure lei avrà tempo da sprecare. Le porgo, innanzitutto, le mie scuse per l’incomodo che le ho sicuramente arrecato, ma ciò che le devo dire riveste carattere d’importanza. I soldi sposano i soldi. Questo da che mondo è mondo. Io soldi ne ho, e ne ho molti più di quanti ne possano servire a me e a un po’ di generazioni che, mi auguro, mi seguiranno. Se procederemo nel nostro discorso le chiederò di controllare di persona l’esattezza e l’entità di quanto affermo. Stando a ciò che mi si assicura, quanto a denaro anche lei non è da meno. Poco più d’una quarantina d’anni or sono, per motivi di unità del patrimonio, sposai la mia unica prima cugina, di qualche anno più anziana di me, la quale solo quindici anni più tardi mi partorì un figlio, restato unico. Il ragazzo, maschio ed erede di tutto… tutto, è chiaro? costituiva un problema per i medici i quali consigliarono unanimemente il clima della Riviera. Sole e iodio, dissero, poi speriamo. Speriamo, dissero. Gl’ingegneri fanno, i medici sperano. Bene, i vari professori ci hanno rimediato una ben magra figura!… Sia come sia, ora è tempo che Giacomo, mio figlio, si accasi e lo faccia con chi sia in grado di farlo. E’ chiaro? Con chi sia in grado di farlo. E ci tengo a sottolinearlo: con chi sia in grado di farlo. Detto questo, credo non ci sia molto da aggiungere.” E sgranò un paio d’occhi da far paura.
“Sì,” mormorò Cataldo.
“Sì?”
“No, no, volevo dire no.”
“Ho preso informazioni su sua figlia. Mi permetta di essere crudo, ma quando si parla d’affari è indispensabile che tutto sia assolutamente chiaro a dispetto delle forme. Sua figlia ha una moralità che le deriva dalla nonna e che è pari alla sua cultura, e l’aspetto, sempre stando alle informazioni acquisite e ad una fotografia di cui sono venuto in possesso, non è gran cosa. E per questo non è saggio che faccia la schizzinosa. E’ saggio?”
“Chi?”
“No, dico, è saggio che faccia la schizzinosa?”
“No.”
“Oh! E allora, lo vede? I soldi sposano i soldi. E’ così da che mondo è mondo ed è così che il mondo gira. Per sua tranquillità aggiungo che il ragazzo è ben proporzionato, con questo significando che il rapporto tra le varie parti del corpo è matematicamente corretto. E’ chiaro?”
“Sì, sì,” s’affrettò a dire Cataldo.
“E allora è fatta! – L’ingegner Stampa si alzò in piedi trascinandosi appresso Cataldo di cui afferrò la mano strizzandola con un vigore insospettabile. – Testimone di tutto il signor Notaio. Le chiedo di affrettare per quanto possibile le presentazioni degli sposi. Non che questo influenzi l’accordo, ça va sans dire, ma io sono un uomo pratico e perder tempo non fa parte delle mie abitudini. Quando?”
“Quando cosa?”
“Sì, dico, a quando la presentazione?”
Senza riflettere, Cataldo sparò la data del compleanno della Romana.
“Nell’attesa, la prego, firmi qui.”
“Che…”
“Il compromesso. Il Notaio aveva già preparato due righe.”
Quella fu la prima notte passata in giro per i corridoi di Monte Gaiano. Di quell’incontro non aveva parlato a nessuno. Se ci fosse stato Martino…
L’Isotta Fraschini entrò nella corte quando già erano arrivati i primi invitati. Dalle porte e dalle finestre spalancate usciva la musica dell’orchestra che la Romana aveva fatto venire da Forlì.
“Oh, babbo, siete in ritardo! – lo rimproverò civettuola la Marchesina, poi, rivolta al ragionier Costanzini – gli affari, gli affari…”
Un’ora più tardi il salone delle feste brulicava dell’intellighenzia e dei maggiorenti di Sant’Anna e dintorni fin oltre Modena. Arrivò anche don Ercole, e come varcò la soglia del salone l’orchestra intonò “Noi vogliam Dio.” La Romana guardò il prete con gli occhi complici e lui diventò paonazzo.
“Dai, – la Gigia diede di gomito a Cataldo – tira fuori il regalo che adesso ci sono tutti.”
“Oooh!”
Cataldo aveva messo sulla testa della Romana un diadema d’oro con una scritta, pure d’oro, alta quattro dita: SALAMI ROMANA.
Applausi. L’orchestra attaccò la Marcia Reale.
Era già tardi nel pomeriggio e l’Ingegnere non si era ancora fatto vivo. E se si fosse dimenticato? E se, ancora meglio, avesse cambiato idea? La ghiaia, però, scricchiolò rivelando l’ingresso di un’automobile oltre la cancellata.
“Mi scusino, mi scusino… – l’Ingegnere entrò quasi di corsa – una malaugurata foratura ci ha ritardati.”
Cataldo deglutiva grattandosi la testa.
“Chi è quello lì?” chiese la nonna.
Stampa guardò Cataldo che restava immobile. Intanto erano arrivati anche il nonno e la marchesa Remigia. Cataldo non si decideva.
“Beh, mi presento da me: ingegner Gaspare Stampa,” e s’inchinò, baciando la mano alle due signore. Il nonno lo guardò dritto negli occhi, cacciandosi le mani dietro la schiena perché, magari, se a quel tipo gli veniva in mente di baciare le mani anche a lui…
“Oh, la Marchesina, suppongo!” esclamò l’Ingegnere scorgendo la Romana che avanzava con quella specie d’impalcatura in testa.
Nel salone, intanto, era entrato un omino in abito candido con un bastoncino da passeggio e un panama in mano. Poteva essere alto quanto un bambino di otto anni e se non fosse stato per la mandibola prognata coperta da una barbetta rada e ispida e la pelle rugosa, lo si sarebbe detto un ragazzino in maschera.
“Giacomo Stampa, mio figlio.”
Cataldo sentì una botta allo stomaco e Monte Gaiano che gli girava intorno.
Il giovane afferrò la mano della Marchesina e le appioppò un bacio gorgogliante. “Oh, ma sei matto!” fece lei, strappando indietro il braccio e spazzandosi la mano insalivata nel sedere.
“Ha informato la signorina, suppongo…” disse il vecchio Stampa.
A Cataldo non usciva una parola. Intanto tutta la sala si era messa in silenzio e gli ospiti si erano voltati verso il gruppetto. L’orchestra continuava a suonare piano.
“Beh, se è così, io sono un uomo pratico: farò io. Signorina, questo è Giacomo Stampa con cui lei è de jure fidanzata.”
La Romana sgranò gli occhi e li abbassò per osservare compiutamente il nanetto. Poi guardò Cataldo. La Gigia guardò Cataldo, la nonna guardò Cataldo e anche il nonno guardò Cataldo, cercandosi meccanicamente in testa la calza che non c’era.
“Babbo, ma… dice sul serio?”
“Sì… poi ti spiego.”
Ratto come un furetto Giacomo infilò un anello nel dito della promessa sposa.
“Babbo…”
“Sì, sì, stai calma che poi ti spiego.”
“E’ da sposare… C’è da sposare questo?…”
Cataldo abbassò gli occhi e disse “E’ già fatta.” Quella firma… Chissà che cosa aveva firmato…
L’orchestra, se si eccettua il trombone che era sordo, lasciò a mezzo una polka.
Furono cinque minuti di crisi isterica in cui la Romana urlò “Ercole, salvami!”, si tirò i capelli, si fece uscire la bava dalla bocca, si gettò a terra sollevando la sottana, aumentando con ciò l’interesse di quei maschi che ancora non sapevano che cosa ci fosse sotto, tutto per bene, insomma, per non lasciare dubbi sul proprio pensiero. Si riprese un poco quando don Ercole le diede qualche buffetto sulla guancia.
“Signori, – disse l’ingegner Stampa inchinandosi – siamo spiacenti di aver arrecato incomodo.” E si voltò, incamminandosi verso la porta.
Giacomo recuperò bastoncino e panama e trotterellò dietro al padre. Poi si fermò, ritornò in fretta verso la Romana che giaceva su una poltrona contornata da una folla che mai si sarebbe aspettata uno spettacolo così eccitante, le sfilò velocissimo l’anello e via, fuori dalla sala.
Un attimo più tardi la ghiaia scricchiolava.
“Forse è meglio che andiamo,” dicevano gl’invitati, ma non si decidevano a lasciare Monte Gaiano per non perdersi il finale.
Finì che la Romana non voleva più vedere suo padre, la Gigia andò a dormire nella stanza azzurra per una settimana, e il nonno passava la giornata seduto sul muro del giardino con la calza in testa. Solo la nonna non vedeva poi tutto questo grande problema. “Ma che cosa c’entra il matrimonio? – diceva – te ti sposi e poi, eh…”
“No, signor Venturelli, a Roma non c’è più niente, – disse il Notaio. – Con Via Nomentana abbiamo esaurito tutto. A Modena avevamo finito da un pezzo. Restano le tasse da versare, naturalmente, i contenziosi che consiglierei di chiudere cercando di limitare i danni, e poi, con quello che resterà, augurandoci che qualcosa resti, vedremo se si potrà aggiustare il poderino di Sabaudia. Temo, però, che ci sarà da fare qualche altro sacrificio, stando almeno a quanto dice il fattore. Sennò ci sarebbe già il compratore che è un mio amico…”
“Stimatissimo Marchese, ingiustizia è fatta. – Così esordiva la lettera del conte Pùlega che la Romana leggeva, e continuava: – La magistratura dello stato repubblicano italiano, che noi reputiamo essere illegittimo, con una sentenza che grida vendetta dinanzi alla Storia ha respinto ognuna delle nostre istanze…” e proseguiva su quel tono, dando conto della disfatta.
“Che cosa vuol dire?”
“Non avete capito?”
“Senta, Venturelli, a forza di vendere è chiaro che non resta più niente. Questa è la lista dei debiti. Ah, ecco qui, ci sono anche le mie competenze, vede, qui: Studio Notarile Pacchioni Pellati…”
“Dice che si poteva fare meglio, – disse Cataldo – che si poteva prendere di più. Ma chi vuoi che lo voglia un castello? E poi quei soldi ci volevano e ci volevano subito.”
“Dai, non te la prendere, – Martino gli strinse tutte due le mani – vedi che il signor Pierino ti ha ripreso. E’ come se non fosse successo niente. Adesso ti do una mano io. Te l’avevo promesso, no?”
“La porta della stalla…”
“Sì, la smontiamo e rimettiamo a posto i cardini. Oggi pomeriggio torna mio figlio che ci aiuta anche lui. Tira su qui.”
Il nonno stava seduto dentro la mangiatoia con la calza in testa. Non diceva niente perché era morto. Però sorrideva.
Davvero godibile dalla prima all’ultima riga. Complimenti.
Lungo per il web, secondo una certe corrente di pensiero; ma quando un racconto è scritto bene, lungo o corto, non fa differenza. Ottimo l’intreccio tra dialogico e narrato. Ricorda vagamente Andrea Vitali, uno dei pochi che oggigiorno parla di una sorta di “presente storico” dell’Italia che fu, sebbene a mio avviso ne abbia fatto una sorta di filone inesauribile per finalità commerciali. I personaggi dei nonni mi ricordano, anche qui vagamente, “Non tutti i bastardi sono di Vienna” di Morosini. Racconto attualissimo che dimostra – semmai ce ne fosse ancora bisogno – come l’ingenuità colpevole e l’ignoranza, da un… Leggi il resto »
Lo scrittore è Molesini e non Morosini…
RISPOSTA a Chesterton – Immagini un accordo di do maggiore seguito da uno di fa maggiore seguito a sua volta da uno di sol settima e, infine, da un altro di do maggiore. La bellezza di quattro accordi consecutivi. Li troverà in Bach, in Mozart, in Beethoven, in Lucio Battisti, nell’Orchestra Casadei… Insomma, volendo, si scova sempre qualcosa che, in un modo o nell’altro, assomiglia a… Quando ho tempo di scrivere, io lo faccio per puro divertimento personale e non ho problemi di Kafka, di Tolstoi o di Vitali. Non ho mai pensato di farne un mestiere, se non altro… Leggi il resto »
Oh, un finale a lieto fine! Mi tolga una curiosità: ogni riferimento a luoghi cose o persone è da ritenersi puramente casuale … O qualche spunto attinge al realmente accaduto?
Per il resto molto bello … lo sto spammando un po in giro, tempo per leggere ora come ora lo troveranno in parecchi.
RISPOSTA a Marco L – Quando ero molto piccolo (3 o 4 anni), nel paesino di 4 case in cui abitavo un tale, poverossimo e ignorantissimo, ereditò, non so né come né da chi, una fortuna che si mangiò in pochi anni. Nel momento di fulgore era talmente cretino che faceva il caffè con il brodo, cosa che nn ho potuto utilizzare nel racconto perché incredibile. Il resto è inventato.