Tra le mille ed una vergogna che insozzano il nostro Paese ormai in rottamazione c’è la piaga degl’infortuni sul lavoro. I quattro cadaveri che dalla ThyssenKrupp di Torino si sono messi in bell’ordine all’obitorio non sono che una delle (statisticamente rare) punte vistose del fenomeno. E allora, quando qualcosa di passabilmente spettacolare riesce a farsi largo nel menu che ci propinano i media, magari momentaneamente a corto di ultimissime su Fabrizio Corona o di eccitanti rivelazioni sul pecoreccio che ha preceduto quella pizza insopportabile che è l’“omicidio di Perugia”, ecco che si strepita tutti in preda all’emozione (fino al momento in cui c’è Tutto il Calcio Minuto per Minuto o quando apre la discoteca). In quell’attimo escono al davanzale quelli che s’indignano meccanicamente per vocazione e professione: i politici. “Le morti bianche? Chiamiamole con il loro nome – tuona Diliberto in TV: – omicidi!” E Napolitano c’inonda di piattume, di conformismo e di frasi precotte. E Prodi, borbottando in un sonno occasionalmente disturbato, ci svela che le leggi per evitare queste stragi ci sono. Peccato che ARPA, unità sanitarie locali, magistratura e tutti gli altri enti di controllo che provvediamo a pagare siano affaccendati altrove e i controlli proprio non abbiano il tempo di farli. Se poi capita
che li fanno, li fanno non troppo raramente in modo “simpatico”. In fondo, per fare i controlli ci sono i controllati stessi. Chi meglio di loro può sapere? Poi qualche operaio ci resta secco in un momento di stanca o quando è il momento di distogliere l’attenzione da certe faccende e tutti montano sul cavallo a dondolo indignato, un cavallo che non disarciona nessuno. Cavalcano tutti, sindacati in primis che, tanto per non smentirsi, dando fondo al loro forse appena appena monotono repertorio primonovecentesco, ti allestiscono un bello sciopero estraendolo dalla povera valigia del prestigiatore con gli operai che sfilano in un silenzio che i soliti cantori (indignati pure loro) del vieto e del trito definiscono stucchevolmente “assordante”. Per carità, non si discute: strage è e pure assassinio. Assassinio di massa, se andiamo a vedere i numeri. Numeri ufficiali, naturalmente. Perché, se si potessero contare davvero i morti sul lavoro, temo si dovrebbe aggiungere un po’ di quella sottospecie di uomini che sono gli extracomunitari, carne da cannone senza diritti e senza manco un’identità, mandati per quattro soldi, sotto l’occhio benevolmente strabico di chi dovrebbe vedere, a fare giochetti di equilibrismo a qualche decina di metri da terra sui palazzi in costruzione o chissà a fare che altro. Di questi non c’è né ci sarà mai traccia: ciò che non si vede non c’è. Ma quando si parla di morti sul lavoro ci si riferisce sempre ai morti acuti: una botta e un cadavere. Eppure c’è parecchio di più e, potendoli contare davvero, i numeri sarebbero un bel po’ diversi. Chi si è mai preso la briga di mettere sul pallottoliere tutti quei prestatori d’opera che, senza che nessuno strepiti, s’indigni o scioperi, lasciano le penne a casa loro, magari dopo essersi fatti anni di cancro senza disturbare nessuno, lontani dall’interesse dei media, perché l’ambiente di lavoro pullulava di porcherie che non si vedono con gli occhi e che, dunque, non esistono? Chi mette le tacche per i cadaveri farciti dei veleni negati che vengono però di fatto sputati da inceneritori, centrali a turbogas, impianti a biomasse, fonderie, cementifici (inceneritori), centrali elettriche a oli pesanti o a carbone, filtri miracolosi messi sulle auto e quant’altro? E i bambini che non ce la fanno a nascere perché già contaminati prima di venire al mondo? E quelli che al mondo ci vengono, ma ci vengono così schifosamente malformati da far svenire le damine e gli zerbinotti del Palazzo che quei mostri li fabbricano ma non ne sopportano la vista? Chiamiamoli pure con il loro nome: omicidi, come giustamente esclama Diliberto, certo di essersi guadagnato altri quattro consensi. E allora, se di omicidi si tratta, cerchiamo l’assassino. Io l’ho fatto. Anzi, lo faccio da anni. Così sono stati anni di guai perché, pensa un po’, gli assassini sono quasi sempre proprio quelli che s’indignano e, pensa un po’, non è poi così raro che i complici siano le vittime stesse. Ogni tanto mi capita di fare indagini intorno ad un impianto, non importa dove e quale, e di scovare le porcherie che questo erutta, trovandole poi, magari, pari pari anche nei tessuti patologici di chi ci ha lasciato o ci sta lasciando la pelle. È qui che si scatena l’indignazione degli operai e dei sindacati. Però, ancora pensa un po’, l’indignazione è contro di me. Contro di me che, nella loro mente, metto in pericolo i loro posti di lavoro, perché il ricatto è “se siete così schizzinosi, noi portiamo lo stabilimento dove non si fanno troppe storie.” Oppure la solita idiozia di “ma volete ridurci con la ‘monnezza’ di Napoli?”. E allora, morti sì, però con il salario sicuro o con la comodità impagabile di fare immondizia a loro capriccio. Così si parte da casa e si strappano i manifesti delle mie conferenze e, ma lo si fa sempre quando io non ci sono, il sindacato, ormai fedele braccio armato di quello che una volta era chiamato il “padrone” e ora è un socio dei partiti, mette in piedi una piccola campagna per “rassicurare” il mondo: le mie sono tutte balle. Forti di questa un tempo insperabile alleanza, i politici, quelli che hanno sempre ben stirata e inamidata nel cassetto la faccia indignata, continuano a succhiare quattrini per i loro lussi e a gestire il potere inventando e distribuendo cariche sine cura a chi ha dato loro una mano (che bello fare l’assessore all’ambiente o l’ambientalista pentito!) a far spuntare un inceneritore qui, una turbogas là, una centrale a carbone a destra e un “ecologico” impianto a biomasse a sinistra. Facendo i conti, potendoli fare buttando dove meritano le indagini epidemiologiche che nascono già con il marchio del falso d’autore come quella che si sta allestendo in Emilia Romagna, e potendo contare su numeri che tengano conto sul serio dei fatti come realmente stanno, temo che i morti “sul” lavoro e, soprattutto, “da” lavoro, sarebbero da correggere al rialzo per ben più di un ordine di grandezza. E in questo lavoro, va da sé, sono compresi non solo i biechi industriali, quelli secondo cui il progresso coincide con l’aumento del PIL costi quel che costi (agli altri), ma soprattutto i nostri delegati da farsa tragica che si preoccupano di tutto fuorché della conduzione sana della casa. Del resto, da bravi politici non fanno come gli statisti che si preoccupano delle generazioni future: il problema che li attanaglia è quello delle prossime elezioni per il posto loro e dei loro cari, per il loro stipendio da gran visir, per i loro privilegi pre-rivoluzione francese, per le loro pensioni di vecchiaia precoce moltiplicabili e per garantire un presente e un futuro radioso a parenti, amici, soci e pure a quei nemici che accettano di non rompere le scatole. Così, ecco che nelle caleidoscopiche stanze del potere, e sono tante, ci si gingilla a fare e a disfare volubilmente destre e sinistre, cose bianche, rosse e arcobaleno, partiti improbabili nati dalla putrefazione di antiche cosche o dalla fantasia sfrenata di qualche businessman o dall’alleanza di vecchi nemici ora associati a scopo di rapina. E tutto questo ha un costo. Un costo che va pagato anche con la pelle di qualcuno. Qualcuno per il quale nessuno, nemmeno chi quella pelle ce la mette, s’indigna.