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Ciao, Daniele

Ciao, Daniele.

Questo mestiere che mi è cascato addosso senza che io lo desiderassi mi ha irrigidito il cervello e, allora, non capisco se il mio è un addio o un arrivederci. Non so dove sia ora il tuo spirito, se mai esiste qualcosa come un’entità che non si pesa e non si misura in nessuna maniera. Non ho elementi

per stabilire se qualcosa che ci è appartenuto continui ad esistere dopo che i miliardi di miliardi di reazioni chimiche che si affannano a succedersi ogni secondo nell’organismo si sono spenti.

 

So solo che, per quanto io continuerò ad esistere con le caratteristiche note ad ogni essere umano, io non voglio ricordarti come la malattia ti aveva cambiato fino a renderti irriconoscibile forse anche a te stesso. Al più, da povero uomo di scienza, lascio che questa sia l’ennesima, inutile prova di come la Medicina (lo scrivo con la maiuscola per ironia) sia una religione fatta di tanti suoni grottescamente sgraziati di tromboni che mai sono stati capaci di dare perfino un nome a ciò che ti ha portato chissà dove ma, comunque, via da noi.

“Dormi, vola, riposa. Muore anche il mare!” non sono parole mie ma di un grande poeta. Io vorrei dedicarti qualcosa di spiritoso come spiritoso eri tu. Ma oggi non ce la faccio. Così, per non sedermi sulla tua pietra con le mani vuote, ti lascio qualcosa che scrissi in uno dei tanti momenti orribili della mia povera vita come orribile è questo:

 

PIGMALIONE

 

Le mattonelle sono bianche. Non proprio tutte. Qualcuna sì: è tutta bianca, senza macchie. Qualcuna è anche intera. Le mattonelle tutte bianche e intere non sono interessanti, però qualche volta le tocco lo stesso. Sono le crepe, le rotture, soprattutto i pezzi che c’erano e non ci sono più, i pezzi che non ci sono mentre io guardo le mattonelle, adesso, a farle interessanti. Bisogna ammettere che non sono così belle come quelle perfette, però ci sono più cose da vedere e, alla fine, le guardo più delle altre. A star lì a guardarle si pensa, si passa il tempo. Quando ho riempito con la cera le parti mancanti della mattonella a sinistra della porta, quella con la rottura a forma di ragno senza zampe, mi sono accorto subito che non si poteva fare. Il ragno non mi guardava più, anche se io sapevo che c’era ancora, lì sotto, senza respirare. I ragni possono stare senza respirare per ore, forse per anni. O per sempre. Le cose le puoi coprire, non cancellare: basta che siano esistite anche solo per un attimo e non si cancellano più. Forse è quello che chiamano eternità, però magari non ho capito bene e loro vogliono dire un’altra cosa. Non so se sia così per ciò che è esistito solo nel pensiero, ma credo di sì. Non si può fare, di riempire di cera quello che manca. E poi la cera mi serve.

Quando mi vengono a prendere per lavarmi, io vedo dove stanno le candele. L’ho visto, io: stanno nell’armadio con le cose del prete. Però a me non le danno perché qui abbiamo la luce elettrica e non si saprebbe che cosa farne delle candele fuori della cappella. Le candele, se le accendi, possono essere pericolose, specie in un posto come questo. Quella del ragno me l’ha data Nemo. “Non dirlo a nessuno,” mi ha detto. Questo è un segreto che tengo per me, e quando sento che arrivano, che mi portano la zuppa e me la versano nel catino, io mi sdraio sulla candela e resto immobile, con gli occhi chiusi. Sto sdraiato finché la porta non ha rifatto gli scrocchi, tutti e cinque. Così nessuno s’è mai accorto di niente. Quando ero a casa, non avrei potuto sdraiarmi su Nico, anche se forse avrei dovuto farlo. Qui si possono fare delle cose che da altre parti non starebbero bene e ci sono cose che si possono fare da altre parti ma qui no.

Io lo so perché mi hanno portato in questo posto. Quando sono venuto, non sono venuto di mia volontà. Io sarei anche potuto restare a casa. Ce l’avrei fatta, credo. Però qui si prendono cura di me: mi danno da mangiare, mi fanno dormire senza legarmi, mi lavano, mi chiudono con gli scrocchi. Qualcuno qui lo picchiano. Io non ho mai visto, ma me l’ha detto Nemo. Quando sono venuti a dirmi che dovevo venire qui, era già successo tutto, si capisce. Mi hanno portato da un posto dove mi legavano quando si andava a dormire. Dicevano che mi agitavo. A me non pare, ma loro le cose le sanno di sicuro meglio di me. C’è stato un gran trambusto, questo ce l’ho bene in testa. Era successo tutto da parecchio tempo, mi pare, anche se di quei fatti che si sono discussi io non ricordo gran che. Anzi, quella cosa che è successa io me la ricordo in tre o quattro modi diversi, o forse anche di più. Ognuno mi diceva una cosa che non era come la dicevano gli altri e io me le sono tenute a mente tutte, quelle cose. Quando il dottore m’interrogava, io gli dicevo l’ultima che mi avevano detto. L’ultima sembra sempre quella vera, ma sono vere tutte. “Quando si sta fuori, lontano, si vede più chiaro,” sentivo che dicevano fra loro, e lo dicevano anche a me. Non so che cosa ci sia da vedere e da capire. E poi, perché si dovrebbe vedere e capire? E’ tutto stabilito.

All’inizio è stato brutto. Mi spingevano. A me non piace quando qualcuno ti spinge, e soprattutto quando qualcuno grida forte mi sembra che m’infilino i ferri da calza nella testa. Qui sono le grida che mi fanno stringere i denti, e le mani sugli orecchi servono a poco. Si sentono anche attraverso il muro, però non si sentono sempre: solo quando vengono dalla stanza di fianco. Il dottore – non quello che m’interrogava, un altro – va di là e dopo un po’ si sta tranquilli. Nemo dice che fa una puntura e dopo cinque minuti è tutto a posto.

All’inizio, quando mi spingevano, mi avevano legato le mani e mi avevano messo in una stanza piccola, con una finestra molto alta che non si poteva raggiungere, poi venivano in tanti e mi chiedevano sempre le stesse cose. Le mani me le hanno slegate quasi subito. Mi chiedevano perché l’avessi fatta quella cosa. Io non lo saprei spiegare bene: sono fatti tutti concatenati e diventano molto complessi. Se ci pensi molto non capisci più niente. Devi pensare ad altro e all’improvviso la testa fa come un lampo e si vede tutto chiaro per un attimo. Se dici “adesso ci penso” non sai dove cominciare a mettere in ordine: è complicato. L’unica cosa semplice è come finiscono, quelle cose, perché non potrebbero finire altrimenti. Succede tutto anche se non vuoi; anzi, lo vuoi per forza. Come finisce è semplice e anche gli altri erano d’accordo che era proprio finita così. L’unica risposta che posso dare è che è stata la cosa stessa a volere che io la facessi. L’ho ripetuto tante volte. E’ strano che non siano tutti d’accordo. Forse mi spiego male.

La prima persona che ho incontrato qui è stato Nemo. Forse non proprio la prima persona, però la prima di cui mi ricordo. Mi ha fatto vedere un giornale che teneva sotto la camicia e sul giornale c’era una fotografia. Nemo diceva che ero io quello della foto, ma a me non pareva.

Con la cera della candela ho fatto una bocca. Non riesco a farla proprio come vorrei io, ma se chiudo gli occhi e la tocco, può andare bene lo stesso. Per metterle dentro le formiche devo aprire gli occhi e guardare ciò che faccio, devo vedere che la bocca non è proprio come volevo io, però questo non mi dà fastidio: l’importante è mettere le formiche, farne delle palline tra le dita e metterle dentro. “Mangia,” le dico io. E la bocca mangia. Poi, quando ha finito, sorride. Lo so che sono io a tirarle su gli angoli ma, del resto, anche la bocca l’ho fatta io e non credo sia cattivo se la faccio ridere. Quando davo da mangiare a Nico, anche lui era contento. Nico, però, rideva senza che io gli tirassi la bocca.

Dopo un po’ ho capito che ci voleva anche qualcos’altro intorno, che la bocca aveva bisogno di altro, non si poteva fare altrimenti, però non avevo più cera. “Te ne do io, di cera, – mi ha detto Nemo: – ti do una candela, forse due, quando ti porto a lavarti.” Ma le candele sono difficili da procurare e qualcosa bisogna pur dargli a Nemo che rischia.

Con le candele nascoste nel telo con cui mi asciugo, sono tornato nella mia stanza. Nemo me ne ha date due di candele. Appena mi hanno chiuso, appena sono stato al sicuro, ho tenuto la cera tra le mani e l’ho rammollita. Le guance sono venute bene: piccole, paffute. Con le guance è più difficile far sorridere la bocca: bisogna essere delicati. Nico aveva le guance così. La cera è un po’ untuosa: bisogna non farci caso.

Stanotte mi sono svegliato e ho visto la bocca con le guance. Ho visto bene perché la lampadina è sempre accesa. Non c’erano formiche e non sapevo come fare a darle da mangiare. Ho saltato. Ho saltato molto, senza scarpe per non farmi sentire, e ho preso una farfalla notturna, una falena. Non avevo mai pensato che per mangiare, per dare da mangiare, bisogna uccidere delle cose vive, eppure, se ci si pensa bene, non c’è altro da fare: è stabilito così. Io non so bene che cosa voglia dire uccidere: quando una cosa è stata, è per sempre. Con la farfalla è più chiaro che si uccide, qualsiasi cosa significhi: le formiche sono piccole, tutte uguali, in fila, non finiscono mai. La falena era da sola. Grossa. Volava senza sapere dove andare, a caso, intorno alla lampadina. Ma forse non volava a caso. Volava così per essere presa. L’ho fatta a pezzetti piccoli e l’ho infilata a poco a poco nella bocca. Quando ho sentito i passi ho fatto finta di dormire e mi sono messo la bocca e le guance sotto la pancia. Appena hanno chiuso lo spioncino le ho tirate fuori di nuovo. Erano rovinate e ho dovuto lavorare un po’ per rimettere tutto a posto. Ho passato il dito sulle labbra. Nico mi prendeva la nocca tra le gengive e stringeva.

Io soldi non ne ho, qui. A casa ne avevo un po’, li tenevo per me e per Nico, ma qui no. Per una candela Nemo vuole una cosa che per me è difficile. Ma lui rischia e la cera mi serve. “Fai silenzio, quando vengo a prendere quella cosa,” dice Nemo. Io faccio silenzio. La cera mi serve. Senza occhi è solo dargli le formiche, o la farfalla notturna, cibo. Quando ci sono gli occhi è diverso.

Gli occhi sono molto difficili da fare. Senza colore è strano. Adesso non so, ma allora Nico aveva gli occhi azzurri. Non come quelli della mamma: di un altro azzurro. Io e Nico eravamo diversi: io gli occhi ce li ho scuri. Non credo Nico potesse ricordarsi gli occhi della mamma. Non me ne ha mai parlato. Del resto, mi parlava poco. Quando siamo rimasti da soli Nico aveva poco più della bocca. Certo è difficile venir su senza mamma. L’ha detto anche uno dei signori che mi interrogavano. Anzi, era una signora. Sarà stata una dottoressa. Una mamma avrebbe fatto di più. Io gli davo da mangiare, lo lavavo, lo cambiavo quando si sporcava, lo guardavo mentre dormiva. Proprio come fanno qui per me. E’ come se qui io fossi Nico e non so se qui io sono felice. Credo sia la punizione. Perché dicono che devo essere punito e anche l’avvocato ha allargato le braccia e ha detto di non lamentarmi, che più di così non si poteva ottenere. L’ha detto come per scusarsi. Io non mi lamento e non so nemmeno perché dovrei lamentarmi: non ho capito bene che cosa significhi ottenere più di così o meno di così: io sono qui perché sono cose che vengono da sole. Qui si prendono cura di me e mi puniscono perché le cose sono concatenate in quel modo: comunque si raccontino i fatti, comunque si spieghino, a guardarci bene il percorso è fondamentalmente lo stesso, e soprattutto non cambia la conclusione. Uno dice “è successo così,” l’altro grida “no, no, te lo dico io com’è successo,” un altro ancora lo chiede a me. Io non credo che questo abbia importanza. Alla fine non può cambiare niente.

Gli occhi con le guance intorno: per farli muovere, gli occhi, devo prendere in mano tutto e girarlo a destra e a sinistra. Anche se ci sono già le guance e gli occhi, le formiche, per piccole che siano, devo dargliele lo stesso. Sempre meno, però, perché ho cominciato a dargli qualche pezzetto di mollica masticata. Non è vero che la mollica masticata fa schifo: viene dal corpo come il latte.

Credo che il dottore abbia visto la cera. Non ha detto niente, però il cuore mi batteva forte. Devo tirare avanti il più possibile, completarlo, perché queste sono cose che non si possono non fare. Se ti chiedi perché devi completarlo, non ti viene una risposta bella chiara. E’ così e basta. Quelle cose sono già nella cera e bisogna tirarle fuori. Nessuno capisce il perché, anche se ha studiato ed è capace di fare dei discorsi molto belli.

Con gli occhi è diverso: più complicato. Forse mi piace di più, ma è più complicato. Quando la bocca ha avuto quello che deve avere si sta un po’ lì, a guardarsi. A guardarsi perché adesso ci sono gli occhi. E’ più complicato ma ci se la fa ancora bene. Dopotutto le formiche e il pane sono sufficienti e quando glieli hai dati si ride tutti e due, con la bocca e con gli occhi. Nico piangeva poco, quasi mai. Quando aveva mangiato mi guardava e diventava un po’ strabico. Almeno così mi sembrava. Sorrideva sempre, mi pare di ricordare. Sì, allora sorrideva sempre.

Ho dovuto chiedere a Nemo delle altre candele: quattro. Mi sono costate care ma mi servivano tutte e quattro. Non ci si può fermare. Una volta che la cosa è partita, non si può fermare. La cosa l’ho iniziata io, ma non ho dovuto pensarci: le mani hanno fatto la bocca, poi le guance, poi gli occhi. E perché? C’è un altro modo per andare avanti?

Mi è venuto in mente che quello che ho fatto con la cera dovesse avere un nome. Nico, ho deciso. Perché un nome è una di quelle poche cose che si possono decidere, credo. Non saprei dire perché: mi è sovvenuto quello e mi è parso che Nico potesse andare bene.

Ho lavorato molto con le quattro candele e mentre lavoravo ho pensato che non so fino a quando quelle cose sono candele e quand’è che diventano Nico, cioè la cosa che sono adesso. Forse erano già Nico anche prima e io dovevo solo mettere in ordine qualcosa che c’era da sempre. E devo dire le candele, cioè delle cose diverse fra loro, o devo dire Nico che è una cosa sola? Però se poi cambieranno, o cambierà, ancora io non capisco che cosa possano, o possa, essere. Forse dentro la cera di Nico c’è una cosa o ci sono delle cose che nessuno può immaginare. Nico è solo un passaggio. Forse. Di una cosa sono sicuro: quando una cosa è stata è per sempre. Una materia può essere mille cose. E’ il cambiamento che non capisco.

I bambini non possono stare senza mamma, diceva la dottoressa. Lei sapeva molte cose e gridava, ma io non credo che la mamma avrebbe potuto cambiare le cose. E’ già tutto dentro, come Nico era nella cera che prima era chissà che.

Quando siamo andati alla cappella il prete mi ha guardato e mi ha messo in mano una candela. Poi mi ha guardato ancora. Non vorrei che sapesse qualcosa. Davanti alla statuina della Madonna il prete ha aspettato che io accendessi lo stoppino, ma intanto ho spezzato la candela di sotto e mi sono messo in tasca il mozzicone.

Nemo mi ha portato altre sei candele e ha guardato quello che avevo fatto. Lui sa che cosa faccio ma non dice niente a nessuno perché io gli do quello che vuole. “Come si chiama?” mi ha chiesto, ma io ho fatto finta di dover cercare delle formiche, perché sennò lui avrebbe detto “ah, Nico!” e avrebbe pensato che Nico di cera e Nico per me sono la stessa cosa. Qui sono tutti convinti che io abbia dei pensieri complicati. A me quei pensieri vengono in mente solo quando me li dicono loro.

Dopo che Nemo è venuto a prendere la cosa che gli dovevo dare, quella per le sei candele, ho visto che Nico si era mosso. La bocca era chiusa da una parte e faceva una smorfia. Quando l’ho aperta per dargli un po’ di zuppa, si è strappata e ho dovuto lavorare molto per rimetterla a posto, anche perché dentro era piena di formiche e di briciole. Ho lavorato molto, ma non è come prima. Per sempre resterà che per mezz’ora la bocca di Nico era strappata.

Ormai Nico di cera è grande. Io guardo le formiche ma quelle sono piccole e anche se sono tante non bastano più. Ci vuole il pane, ci vuole la zuppa. Ho chiesto a Nemo se di pane me ne può dare di più, e magari anche di zuppa. “Ti do quello che vuoi tu, si capisce,” gli ho detto. “Non si può,” ha risposto lui. E allora bisogna che Nico mangi il mio pane e la mia zuppa.

Il dottore è convinto che io butti per terra il pane e rovesci la zuppa. Non voglio dirgli che la do a Nico, perché ho paura che lui me lo porti via.

Nico non era felice. Non era felice perché era stabilito che non potesse volermi bene, credo. Io? Io non so se gli volessi bene. Chi può dirlo? A me pareva di sì, ma ciò che importava è quanto pareva a lui. Era tutto come un treno che viaggia, che corre sulle rotaie e di lì non può uscire. Il treno arriva per forza dove lo portano le rotaie. E poi che importanza ha se io gli volevo bene o no? A me sembrava che non potessi vivere senza di lui e invece non era vero. A me sembrava che non potessi vivere senza di lui e mi sembrava che quando mi parlava, le poche volte in cui mi parlava, anche se era per volere delle cose che non sapevo dargli, fosse come un premio. L’ho detto alla dottoressa, ma credo che lei non abbia capito. Forse per lei è stabilito in un’altra maniera. A me sembrava che non potessi vivere senza di lui e credo che questo lo facesse infelice. Questo era colpa mia, si capisce. Nico faceva fatica a muoversi. Il dottore, quello che veniva a vederlo, diceva che non aveva niente, che non era malato; però Nico non si muoveva che a fatica e stava davanti alla finestra che guardava verso il muro del cortile. Un giorno, mentre mangiavamo e stavamo in silenzio, mi disse che io gli facevo del male, che io sapevo per quale ragione lui non si muoveva e che non volevo aiutarlo perché non gli avevo mai voluto bene, che gli davo solo da mangiare perché era stabilito così e non potevo fare altrimenti. Quella è stata la prima volta in cui mi è venuto in mente che io potessi non volergli bene come si deve. Se Nico aveva detto così è perché in ciò che è stabilito per lui io avevo la possibilità di sapere perché lui non poteva muoversi, perché lui non era felice. Io ci ho pensato molto, ma dalla testa non mi è mai venuto fuori niente. Niente. Eppure ho anche provato a chiederglielo. Non è stato facile chiederglielo. Lui mi guardava senza parlare e si capiva che io la risposta ce l’avevo ma era come se non la sapessi leggere, e si capiva che lui non era felice per colpa mia. Dopo i dottori hanno detto che io ero depresso, e anche l’avvocato lo diceva. Non so esattamente che cosa significhi. Nico era infelice ed era colpa mia, perché io credevo di volergli bene ma a lui il bene che credevo di volergli non arrivava. E solo questo contava.

E’ venuto il direttore a vedermi, insieme con il dottore e con Nemo. Hanno guardato il pane e la zuppa per terra e il dottore ha detto che io sono denutrito perché butto via il cibo. Sono tornati dopo un po’ con un piatto di maccheroni e mi hanno fatto una puntura. Mi è venuta molta fame, ma quei maccheroni erano per Nico. Ho fatto finta d’iniziare a mangiare, lentamente, così sono usciti. Sono andato da Nico con la bocca piena perché non avevo mandato giù niente e con il piatto, però Nico aveva la bocca strappata e sembrava che gridasse. Sentivo gridare. I maccheroni del piatto sono caduti per terra. Le mani mi tremavano, senza motivo, e non sono riuscito a rimettere a posto la bocca. Anzi, l’ho strappata di più. Non l’ho fatto apposta: le mani facevano delle cose che io non credevo di volere. Non capivo se Nico gridasse perché voleva mangiare o mi mandasse via. I maccheroni masticati mi sono caduti addosso. Mi sono accorto che stavo gridando.

Nico l’ho schiacciato con il catino della zuppa. Poi ho pianto, ma non so perché.

 

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